Inghilterra, 1559.
Elisabetta I non avrebbe potuto imporre da subito la sua Chiesa artificiale con la forza: avrebbe rischiato di perdere il trono. Per questo, perché, cioè, nella sua prudenza, iniziò in punta di piedi, si disse di lei che fu tollerante. Addirittura, secondo alcuni (ignoranti) libri di testo, che concedesse la libertà religiosa. Lungi da lei e da tutti i sovrani del tempo.
Fu essenzialmente un gioco di astuzia, giacché il governo rifiutò sempre la parte dell’aggressore e negò sempre l’evidenza: in Inghilterra, continuò a sostenere William Cecil–Lord Burghley strenuamente, nessuno era mai stato perseguitato per motivi religiosi ma solo per dissidenza politica. Vale a dire per alto tradimento. Il fatto che tutti i cattolici fossero traditori era un’equazione data per scontata e sottolineata il meno possibile. In tutto ciò, il governo si dava tempo: pazientemente canalizzata, la gente si sarebbe allineata con un sistema che, in fondo, richiedeva solo una presenza formale al servizio domenicale.
I cattolici inglesi, dal canto loro, impiegarono qualche tempo per capire esattamente cosa fosse da farsi: nei primi anni alcuni sacerdoti sostennero addirittura che i fedeli potessero tranquillamente presentarsi al servizio religioso di Stato purché poi andassero anche a Messa. Per questo, ad esempio, il marchese di Montague divenne un papista di chiesa. Persino Roma non fu lestissima a pronunciarsi in proposito, giacché la situazione era deliberatamente confusa. Ma il Papa proibì ufficialmente di frequentare il servizio anglicano nel 1566, ribadendo il giudizio del Santo Uffizio di due anni prima. Finalmente i due schieramenti si delinearono per quel che erano in realtà: radicalmente incompatibili.
La ricusanza, cioè il rifiuto di partecipare alle funzioni di Stato, divenne così per il governo un fenomeno preoccupante. Cecil e compagni, però, non potevano non essere ottimisti: il papismo non avrebbe potuto che affievolirsi con gli anni, soprattutto per via della naturale estinzione degli anziani sacerdoti di Mary Tudor. Avendo il governo reso impossibili nuove ordinazioni, l’antica fede si sarebbe semplicemente estinta e la gente non avrebbe potuto fare a meno di confluire nella Chiesa di Stato.
Ciò che nessuno aveva previsto era che quei rami appassiti potessero ricevere nuova linfa.
William Allen e il seminario
L’idea geniale venne a William Allen, un giovane ricusante, ex professore di Oxford, braccato in tutto il regno, che fuggì all’estero per essere ordinato sacerdote. Nel 1568, a Douai, nelle Fiandre, egli ebbe l’onore di essere il primo in Europa, dopo san Carlo Borromeo, ad applicare i decreti tridentini fondando un “seminario”, vale a dire un “vivaio” per i semi: terreno fertile di coltura per i virgulti destinati a diventare i pilastri della Chiesa. Linfa vitale del cattolicesimo. Fu quell’idea rivoluzionaria a sancire la sopravvivenza del cattolicesimo inglese.
I giovani cattolici che fossero riusciti a lasciare l’Inghilterra avrebbero potuto ricevere un’istruzione consona alla loro fede ed eventualmente farsi sacerdoti. L’iniziativa ebbe un successo strepitoso. Da qui all’idea, da parte di alcuni, di tornare segretamente in patria per dare assistenza spirituale e amministrare i sacramenti ai propri correligionari, salvando così l’antica fede dall’estinzione. Non partirono per convertire gli anglicani, ma solo per prendersi cura del gregge abbandonato. Il successo strepitoso della missione, e la riconversione di moltissimi papisti di chiesa, furono però fatti innegabili che spinsero i più arditi dei missionari a cercare il dialogo con i protestanti e persino con i parlamentari, con i ministri e con la sovrana in persona.
Di tutto ciò, come del resto del Pellegrinaggio di Grazia, non c’è traccia nei libri di storia italiani, rimasti ostinatamente ancorati all’obsoleta teoria whig-protestante del XVIII secolo, che volle fare di Enrico VIII, Edoardo VI ed Elisabetta I i portavoce del loro popolo. In realtà il popolo inglese si fece “anglicano” lentamente e dolorosamente, solo attraverso persecuzioni, propaganda anticattolica, falsificazioni della storia, finte congiure, diffamazione istituzionalizzata.
La missione inglese è invece uno degli episodi più gloriosi della Riforma Cattolica. Cominciata dai sacerdoti di Allen, che sapevano benissimo di rischiare lo squartamento se scoperti, dopo qualche anno ricevette l’agognato rinforzo della Compagnia di Gesù, l’ordine recentemente fondato da sant’Ignazio pronto a evangelizzare, o rievangelizzare, il mondo intero.
A questo punto, se il cattolicesimo non era disposto a lasciarsi cancellare, non esisteva una soluzione pacifica. Dopo gli imprigionamenti degli anni Sessanta, negli anni Settanta le esecuzioni si fecero sempre più frequenti. Le solite, infamanti esecuzioni per alto tradimento, quasi sempre dopo insopportabili torture. Ma non trattavasi di persecuzione religiosa: assolutamente no. Quei traditori morivano, si affrettò a spiegare Burghley al mondo intero, perché essendo fedeli al Papa non erano più fedeli alla regina. La quale, nel frattempo, mano a mano che invecchiava senza sposarsi né tanto meno concepire, andava sempre più appropriandosi di attributi mariani e divini facendo di necessità virtù, trasformando un gravissimo problema dinastico e nazionale in un mito giunto fino a noi. Gloriana, la Regina vergine, era pronta per l’adorazione incondizionata del suo popolo.
Gli occhi della regina
Il famoso “ritratto dell’arcobaleno”, del 1601, ritrae la Regina vergine al colmo della potenza e dello splendore, e senza mezza ruga nonostante i suoi 67 anni, mentre tiene nella destra un arcobaleno, simbolo di pace e anche della dea Iride, messaggera di Giunone, e con la sinistra dispiega il suo sfarzoso manto dorato come per invitare i fruitori a osservarlo da vicino. Ma perché mai, invece di motivi floreali o semplicemente ornamentali, l’interno del manto porta impresse innumerevoli immagini di bocche, orecchie, soprattutto occhi? E perché quel grosso, sinuoso serpente sulla manica sinistra? Semplice: per intimidire i suoi sudditi. Il manto che l’avvolge e la protegge indica infatti gli efficientissimi servizi segreti, grazie ai quali ella vede e sente tutto. La Grande Sorella li guardava. Quanto al serpente, con le sue spire, è il simbolo minaccioso della sua saggezza e della forza della sua mente, che porta in bocca il suo cuore (un grosso rubino) impadronendosene. Per chi abbia letto qualcuna delle lettere ufficiali da lei scritte, il parallelo tra le curve del serpente e la contorta mente regale viene spontaneo.
Giacché i servizi segreti erano la sua arma più potente: di fatto, riuscirono a mantenerla sul trono ancora per 33 anni dopo la fatale scomunica. È proprio nel 1570 che William Cecil aveva cominciato a tessere la trama delle spie governative dando loro un ordine e una gerarchia. La prima impresa era stata un gran successo: il rapimento, nelle Fiandre, di un esule cattolico che era stato molto influente sotto Mary, John Story, e a cui Cecil e compagni avevano giurato vendetta. Nonostante avesse da anni cittadinanza spagnola, l’anziano professore di Oxford fu catturato, portato a Londra, barbaramente torturato nella Torre, fino ad avere l’onore di inaugurare la famosa forca triangolare di Tyburn, dove in tempi di abbondanza si potevano impiccare fino a dieci condannati insieme. Seguì lo squartamento rituale. Fu questa la risposta della regina alla scomunica di Pio V.
Essendo Cecil-Burghley un uomo molto indaffarato, egli affidò le redini del nuovo efficiente servizio al suo fedele collaboratore, Francis Walsingham, che lo trasformò in un’arma praticamente invincibile avvalendosi di professionisti di prim’ordine e maestri di contraffazione. Esperti imitatori di sigilli e calligrafie, decifratori di codici segreti, fluenti in diverse lingue, gli agenti di Walsingham erano uomini svelti, intelligenti, pronti a tutto. Spesso erano ex cattolici, da lui “girati” con la corruzione o con il ricatto, che si infilavano in tutti gli ambienti nemici: comunità di ricusanti, di esuli politici, persino nei seminari di Douai-Rheims, persino nell’English College di Roma. Spesso erano anche uomini disperati, pronti a tradire chicchessia in cambio di un lauto compenso. Alcuni si misero a lavorare su due fronti, diventando doppi o tripli agenti; diversi ci rimisero la pelle.
Quanto alle informazioni che passavano al loro padrone, non erano necessariamente vere: capitava che la realtà fosse amplificata a dismisura per amplificare il compenso. Così fece a tratti un agente che non rimase a lungo su suolo inglese ma che fu estremamente utile a Walsingham: un sedicente francese, tale Henri Fagot, che tradì il suo benefattore, l’ambasciatore Castelnau, il quale stava cercando di ottenere la liberazione legale di Mary Stuart attraverso la mediazione della Francia. Molti furono i cattolici inglesi (uno dei quali imparentato con Shakespeare) mandati al patibolo da Fagot; che poi altri non era che l’italiano Giordano Bruno, che dava sfogo così al suo odio anticattolico.
Gli anni Ottanta furono, a dire del governo, tutto un fiorire di “complotti cattolici” contro la regina. Chissà, forse qualcuno era anche autentico ed era realmente promosso dai Guisa o dal Re di Spagna; per la maggior parte, però, furono opera di agenti provocatori che poi facevano brillare la bomba prima che scoppiasse. Così fu, probabilmente, la congiura sventata da Bruno, quella di Throckmorton; così fu, sicuramente, come dicemmo altrove, quella che portò i risultati maggiori e più graditi ai collaboratori della regina, quella di Babington. Gli “occhi” delle regina continuarono così a proteggerla lungo tutto l’arco del regno. Ormai non erano più soltanto i suoi occhi, ma anche le sue orecchie e la sua bocca. Come ammonisce il Rainbow Portrait, i suoi agenti la proteggono, la avvolgono, e nulla le potrà sfuggire. State bene attenti, sudditi, a quel che dite e fate. E anche a quello che non dite, non fate, non pensate, ma che viene comodo supporre che diciate, facciate, pensiate. Quanto al cuore che sta in bocca all’involuto serpente, è davvero quello della regina o è quello di un traditore, strappato sul patibolo?
Alla morte di Walsingham, nel 1590, i servizi segreti passarono sotto l’egida del ventisettenne Robert Cecil, degno continuatore della politica paterna. Alla morte del padre, nel 1598, egli divenne l’uomo più potente del regno; quando morì anche la regina, orchestrò sapientemente la pacifica successione del protestante re di Scozia. Poi, nel 1605, secondo alcuni storici, agenti da lui assoldati diedero vita al “complotto” che diede il colpo di grazia alla causa cattolica: la Congiura delle Polveri.
Padre Thomas Wodehouse e padre Cuthbert Mayne
Per quanto il governo potesse fingere che l’assetto religioso non fosse poi cambiato di molto, e che tutto andasse bene nell’epoca aurea della regina vergine, il seminario di William Allen era un’autentica spina nel fianco: per colpa sua il cattolicesimo inglese non si sarebbe tranquillamente estinto e avrebbe minacciato di distruggere la vacillante Chiesa di Stato e il regime totalitario che dietro a essa si nascondeva. Per questo i primi sacerdoti consacrati a Douai, e che tornarono in patria a tener viva la fede tra i ricusanti (e non, per ora, a rievangelizzare i protestanti), rischiavano grosso.
La scomunica di Pio V aveva dato al governo il pretesto che cercava: l’evidenza del fatto che nessun cattolico potesse essere fedele a una regina eretica e già deposta dal Papa. Non per nulla il 1570 vide una importante riedizione, riveduta, corretta ed ampliata, del Book of Martyrs di Foxe, le cui immagini di persecuzione e martirio erano ormai le uniche fruibili da parte del popolo.
Dopo John Felton, John Story era stato la seconda vittima sacrificale pubblica del regime: il loro sangue servì a formare una nazione più consapevole della cosiddetta minaccia cattolica. Di lì a tre anni il seminario di Allen consacrò i primi sacerdoti; non a caso, proprio il 1574 vide un’altra vittima, questa volta un sacerdote, padre Thomas Wodehouse. Non apparteneva alla nuovissima generazione di missionari ma a quella precedente dei sacerdoti mariani. Il suo reato quello di mettere in discussione il nuovo assetto religioso e, forse, la legittimità della regina. Non ci sono giunti i dettagli della vicenda; sappiamo solo che gli fu chiusa la bocca per sempre, probabilmente per squartamento.
Poi, nel 1577, fu la volta del primo martire del seminario di Douai, padre Cuthbert Mayne, ex pastore protestante, arrestato perché sacerdote cattolico. Nato nel Devonshire nel 1543 o ‘44, fu ordinato ministro anglicano intorno ai diciotto anni. Mentre studiava a Oxford, però, entrò in contatto con studenti poco ortodossi, molti dei quali erano sul punto di riconciliarsi con l’antica fede. Quando il governo intercettò una lettera in cui comparivano diversi nomi, fece scattare i conseguenti ordini di arresto; al che il giovane Cuthbert fuggì al seminario di Douai, fu riconciliato al cattolicesimo e poi ordinato sacerdote. Lasciò le Fiandre solo nel 1576. Giunto in patria, trovò rifugio presso il cattolico sir Francis Tregian, in Cornovaglia, e fu tradito da un nemico di quest’ultimo. Puntualmente, dopo il fatto, Tregian fu espropriato di tutti i suoi beni, passò ventotto anni in prigione e dovette poi ringraziare di non essere finito sul patibolo ma di essere invece spedito a morire in Spagna.
Padre Mayne fu arrestato dall’alto sceriffo della contea, uno dei nemici di Tregian che per il suo atto eroico fu fatto cavaliere. Processato, fu condannato a essere squartato per alto tradimento. I capi di imputazione non accennavano neppure a eventuali complotti contro la regina, bensì applicavano le recenti leggi introdotte a partire dall’atto di uniformità: era tradimento, ad esempio, celebrare Messa.
Il gioco si faceva sempre più duro.
Padre Edmund Campion, padre Robert Persons & co.
Da tempo William Allen cercava rinforzi, per la sua contro-riforma, presso l’ordine più prestigioso scaturito dalla Controriforma: la Compagnia di Gesù. Il Padre generale, però, preferiva formare i suoi prodigiosi missionari per mandarli in Estremo Oriente, piuttosto che vederli macellare nella vicina Inghilterra.
Finché, nel 1579, anche per via della pressione di alcuni gesuiti inglesi, egli cedette. In quell’anno fu infatti ufficialmente aperta la missione inglese dei gesuiti per ordine della Santa Sede. Il primo gruppo in partenza era formato da due padri e un fratello laico gesuiti, più quattro sacerdoti del seminario di Allen e due giovani laici. Avevano due ordini principali: uno, tener viva la fede tra i ricusanti e i papisti di chiesa senza per nessuno motivo immischiarsi in questioni politiche né tentare di far apostolato tra gli eretici. Due, cercare di rimanere in vita il più a lungo possibile. Tutte cose non facili, naturalmente.
I giovani missionari partirono separati, uno o due alla volta, per cercare di passare indenni attraverso il setaccio preparato per loro dai servizi segreti di Walsingham, che avevano frattanto divulgato in tutto il Regno la notizia che una falange di agenti segreti papali stava per sbarcare su suolo inglese per spodestare la regina e consegnare l’Inghilterra a Filippo di Spagna e al Papa, che avrebbero provveduto a mandare al rogo tutti i protestanti. Tutti i porti furono allertati come se si temesse un’invasione su larga scala. I missionari però passarono sotto mentite spoglie. Il padre gesuita Robert Persons, travestito da capitano delle guardie, riuscì persino a farsi regalare un cavallo e a preparare la via senza intoppi a un “mercante” che stava aspettando, ossia padre Edmund Campion.
La missione dei due gesuiti fu un successo travolgente. Padre Persons riuscì addirittura a mettere in piedi una tipografia “magica”, che si poteva smontare, trasportare e rimontare altrove in tempi brevissimi, e a bombardare il Paese di scritti politicamente e religiosamente scorrettissimi, che mettevano a nudo tutte le debolezze del colosso statale dai piedi di argilla (ma mai accennavano a questioni politiche e tanto meno alla legittimità della regina). Spostandosi velocemente, e avvalendosi dell’aiuto di una quantità incredibile di laici, i due gesuiti riuscirono a coprire intere contee. Non solo amministrarono i sacramenti e offrirono formazione ai ricusanti più incalliti, ma riconciliarono alla fede migliaia di “lapsi”, che avevano aderito alla Chiesa di Stato per debolezza o per paura. Di questo passo, l’impalcatura del “nuovo assetto” rischiava di barcollare e cadere.
Fu data loro una caccia senza quartiere e senza esclusione di colpi; naturalmente fu messa una taglia esorbitante sul loro capo. Gli effetti non si fecero attendere. La prodigiosa missione gesuita durò appena un anno; quasi tutti i missionari, gesuiti e seminaristi, furono scoperti, torturati, condannati per aver complottato contro la regina. Solo padre Robert Persons riuscì a fuggire e i superiori gli negarono categoricamente di tornare in patria. Dall’estero, dunque, padre Persons divenne, insieme a padre Allen, il nemico numero uno del regime elisabettiano e dedicò la vita a smascherarne le strategie: gli scritti di Allen e Persons divulgarono la verità, in tutto il Continente, sulle atrocità che si commettevano oltre Manica in nome della legge.
I dodici martiri che soffrirono tra il 1581 e il 1582 sono: Edmund Campion, S.J., Thomas Ford, William Filby, Ralph Sherwin, Alexander Briant, S.J., Luke Kirby, Robert Johnson, John Shert, Laurence Richardson, John Paine,Everard Haunse, Thomas Cottam, S.J. Il più anziano, probabilmente, padre Campion (41 anni); il più giovane, padre Briant (non ancora 25).
Il martire più famoso, oltre che il missionario più carismatico e colto, è senz’altro padre Edmund Campion. La sua storia è però emblematica, molto simile a quella di tanti altri che rientrarono in Patria per tenere in vita l’antica fede e che finirono prima ferocemente torturati, poi altrettanto ferocemente squartati, tra atroci tormenti, sul patibolo dei criminali.
Padre Campion era stato lo studente più promettente dell’università di Oxford, uno dei giovani “diamanti” d’Inghilterra, quanto a cultura, eloquenza e personalità. Quando, fuggendo all’estero, passò al nemico, il governo si sentì pertanto doppiamente tradito. Figuriamoci la reazione di Cecil e compagni quando vennero a sapere, dai loro agenti segreti, che egli era entrato nel famigerato ordine, spagnolo e papale, dei gesuiti. Appena tornato in Patria, padre Campion si lanciò nella sua impresa evangelizzatrice con grande impeto; anche perché sapeva benissimo (come testimonia il suo epistolario) che sarebbe stata soltanto una questione di tempo.
Il suo arresto avvenne per una serie di coincidenze. Uno: decise, diversamente da quanto era solito fare, di tornare in un grande maniero appena lasciato, mosso a pietà dalle suppliche dei cattolici che vivevano nei paraggi e si erano persi la grande occasione di sentirlo predicare. Due: un cattolico rinnegato che ora serviva Walsingham passò di lì proprio quella domenica sperando che vi si celebrasse una qualche Messa clandestina; quale non fu la sua gioia quando venne a sapere che a celebrare sarebbe stato proprio il famoso padre Campion. Tre: la perquisizione del grande maniero era quasi terminata, dopo quasi ventiquattr’ore di smantellamenti e demolizioni, e i pursuivants (cacciatori di preti professionisti) stavano per porgere le loro scuse alla padrona di casa, quando uno di loro scorse una debole luce che filtrava dalla fessura tra due gradini, smontati i quali scoprirono il nascondiglio di Campion e di altri due sacerdoti.
Portato a Londra e fatto sfilare per le strade tra il pubblico ludibrio, egli fu rinchiuso nella Torre e, rifiutatosi di abiurare e di passare alla Chiesa di Stato, fu prima selvaggiamente torturato, poi subito costretto a una disputa impari con un gruppo di teologi elisabettiani (dalla quale emerse vincitore), poi processato per alto tradimento. Non per aver rifiutato la supremazia regia, non per aver celebrato Messa, ma per aver tramato contro la regina in persona: era come criminale comune che si voleva la sua testa, non certo come martire. Tutti coloro che lo avevano ospitato o appoggiato finirono agli arresti e passarono guai seri. Qualcuno fu processato; qualcuno fu semplicemente arrestato ed eliminato in circostanze misteriose.
L’esecuzione di padre Campion e di alcuni dei suoi compagni, il primo dicembre 1581, avvenne davanti a una folla che non credeva minimamente che quegli uomini fossero traditori della patria. Ancora una volta, un istante prima di morire, padre Campion difese se stesso e la propria fede in modo mirabile. La sua testimonianza provocò diverse conversioni, persino di giovani cortigiani, alcuni dei quali pagarono poi, a loro volta, con la vita.
Padre Thomas Cottam
Thomas Cottam morì quasi per sbaglio, giacché si trovava in Patria solo di passaggio. Nato nel 1549 nel Lancashire da genitori protestanti, studiò a Oxford, la più filocattolica delle due università, e divenne maestro a Londra. Anche il fratello maggiore, John, cattolico come lui, si diede all’insegnamento e fu assunto per la Grammar School locale dalla municipalità di Stratford, nel Warwickshire, la scuola quasi sicuramente frequentata dal giovane Shakespeare.
Torniamo al fratello minore. Thomas Cottam si riconciliò con il cattolicesimo grazie al laico Thomas Pounde, di cui diremo tra breve; poco dopo fuggì all’estero, come tutti gli aspiranti seminaristi, che attraversarono la Manica senza permesso, e cominciò gli studi a Douai. In realtà si sentiva chiamato ad andare missionario in India; anche per questo entrò nell’ordine dei gesuiti, a Roma. Ebbe però problemi di salute: fece dunque ritorno a Reims per qualche tempo in attesa di guarire, dopodiché sarebbe potuto finalmente partire per l’Oriente. Ma purtroppo non vide mai quelle terre. Appena ordinato sacerdote, nel 1580, si stava recando in Patria per ristabilirsi definitivamente e per dire addio alla famiglia quando venne tradito da una spia ed arrestato, subito allo sbarco a Dover. Uno dei suoi compagni di viaggio escogitò un sotterfugio per farlo rilasciare ed egli riuscì così a raggiungere Londra sano e salvo. Quando apprese, però, che il suo salvatore stava ora passando guai seri per causa sua, si costituì. Arrestato, fu sottoposto a diverse sessioni di tortura con diversi strumenti, tra cui la famigerata Scavenger’s daughter, che comprimeva il corpo fino a farlo sanguinare. Processato insieme a padre Campion e ai suoi compagni, fu condannato a morte, ma dovette attendere sei mesi prima di giungere al patibolo. Condivise la pena dei traditori con i sacerdoti di Douai Filby, Kirby e Richardson. Furono tutti beatificati nel 1886.
I dodici sacerdoti macellati ritualmente nella stagione 1581-82 furono resi celebri, e la loro memoria fu ripulita da ogni accusa politica, grazie a un fondamentale scritto apologetico di padre Allen, intitolato Breve storia del glorioso martirio di dodici reverendi sacerdoti giustiziati negli ultimi dodici mesi per aver confessato e difeso la fede cattolica, ma sotto la falsa accusa di tradimento, con una nota di varie cose accadute loro nella vita e nella prigionia e una prefazione riguardante la loro innocenza.
Intanto il parlamento del 1584-85 inasprì le leggi anticattoliche.
Padre Henry Walpole e padre Robert Southwell
Nel frattempo Allen e Persons avevano fondato altri seminari, a Roma, in Francia, in Spagna.
Padre Henry Walpole fu il primo martire del seminario di Valladolid. Nato nel 1558 da una famiglia cattolica, riuscì a ricevere l’istruzione da gentiluomo che gli spettava in quanto, come il giovane Campion, aveva giurato fedeltà alla supremazia regia e aveva quindi potuto laurearsi a Oxford. A ventidue anni assistette al dibattito impari tra un sanguinante e storpio padre Campion e i teologi della regina; in seguito, fu presente alla cruenta esecuzione sua e dei suoi compagni; Addirittura, Walpole si ritrovò il bianco corsetto che indossava macchiato del sangue del martire. Convertitosi, scrisse una poesia in onore di padre Campion e fuggì in Francia. Andò a studiare per il sacerdozio al collegio inglese di Roma, dove fu ammesso nella Compagnia di Gesù. Completò gli studi di nuovo in Francia; poi, ordinato sacerdote a trent’anni, seguì le truppe spagnole nelle Fiandre e fece loro da cappellano. Fu imprigionato per un anno dagli inglesi, che combattevano a fianco degli indipendentisti fiamminghi; poi si trasferì a Valladolid. Partì per la missione inglese nel 1593. Fu però identificato in una locanda, tradito da un compagno di viaggio, subito dopo lo sbarco, e immediatamente arrestato: era ormai reato, per un inglese, essere consacrato sacerdote all’estero e rientrare in Patria. Fu trasferito nella Torre di Londra, dove fu orrendamente torturato, dal notorio Richard Topcliffe, in almeno quattordici sessioni, fino a perdere definitivamente l’uso delle dita. Tenuto prigioniero per due anni, subì lo squartamento di rito nel 1595, dopo che, al processo, rifiutò come tutti i suoi compagni di pena di sottoscrivere la supremazia regia.
Padre Robert Southwell fu certo il martire più celebre di fine secolo. Nato nel 1561 da una famiglia arricchitasi con le spoliazioni monastiche enriciane, fu però cresciuto nella fede cattolica. Fuggì a Douai giovanissimo; si diresse poi a Roma per entrare nella Compagnia di Gesù. Cominciò dunque gli studi sotto la direzione spirituale di padre Persons. Fu amico di padre Simon Hunt, che era stato (come il fratello di padre Cottam) precettore a Stratford, il paese del giovane Shakespeare. In breve, dopo l’ordinazione, Southwell fu nominato prefetto dell’English College nonostante la giovane età. Rientrò in patria nel 1586 insieme al nuovo superiore della missione inglese, padre Henry Garnet. Grazie al perfezionamento delle tecniche di nascondimento e di fuga e ai miglioramenti che erano frattanto stati apportati, i due riuscirono a sopravvivere molto più a lungo dei padri Campion, Cottam, Walpole.
Di padre Garnet diremo in seguito. Southwell rimase nascosto nel sottosuolo ricusante per due anni, dicendo Messa, evangelizzando, predicando, scrivendo opere apologetiche e poesie. Poi, nel 1588, mentre il Paese affrontava l’Armada spagnola (e i cattolici subivano l’isteria di massa che ciò comportava), trovò dimora stabile presso Lady Anne, contessa di Arundel, il cui marito, Philip Howard (del quale altresì diremo tra breve), era prigioniero nella Torre per la sua fede. Di giorno stava nascosto in una camera segreta di cui solo pochissimi servitori erano a conoscenza; di notte portava avanti la sua attività missionaria tra i cattolici della zona. Nel frattempo scriveva e, grazie all’appoggio dei suoi ospiti e alla fitta rete di amici, stampava e divulgava. I suoi furono i primi scritti cattolici a essere stampati in Inghilterra dai tempi di Campion e Persons. Le sue opere, in prosa e poesia, gli valsero non solo la fama di grande apologeta, ma anche di esperto poeta e uomo di lettere. Le sue poesie furono i migliori esempi di barocco inglese e diffusero, tra l’altro, la “letteratura delle lacrime” (di dolore per i propri peccati e di conversione); la sua prosa, elegante e bilanciata, cercò sempre di rifuggire la polemica quanto più possibile; la sua apologetica fu sempre un accorato appello al lucido ragionamento. Cominciò a scrivere al marito della sua ospite che, dal carcere, aveva disperato bisogno di direzione spirituale. La loro corrispondenza sfociò presto in una intensa amicizia.
Padre Southwell riprese la vita del missionario ramingo e braccato quando Lady Anne cadde in disgrazia, perché cattolica, e fu sfrattata. In ogni caso, il regime voleva la testa del gesuita a tutti i costi e per lui (e per i suoi ospiti) era diventato troppo rischioso fermarsi troppo a lungo in un unico luogo. Mentre girava le case dei ricusanti, divenne direttore spirituale anche del giovane Henry Wriothesley, conte di Southampton, il futuro mecenate di Shakespeare. È ormai certo che tra il missionario e il drammaturgo ci sia stato quantomeno un fitto rapporto letterario.
La sua missione terminò nel 1592, mentre si trovava di passaggio nel maniero della famiglia Bellamy. Fu infatti tradito dalla giovane Anne Bellamy, che, arrestata, non resse alle sevizie e rivelò al torturatore ufficiale di Sua Maestà, Topcliffe, tutti i nascondigli segreti (priest holes) della casa e i giorni esatti in cui egli avrebbe potuto trovare l’ambita preda. Padre Southwell fu arrestato mentre ancora indossava i paramenti sacri. Per torturarlo meglio addirittura Topliffe se lo portò nella cantina di casa; egli, però, non proferì neppure una parola, nonostante fosse sottoposto a supplizi peggiori della morte. Rimase prigioniero per quasi tre anni prima di subire il solito processo-farsa e di essere condannato allo squartamento. Ma, diversamente da padre Campion e da tanti altri, non fu squartato da vivo: mentre penzolava dalla forca un gruppo di giovani nobili, non cattolici, si fece largo tra la folla e uno di loro lo tirò per i piedi per affrettargli la fine. Quando il boia ebbe finito il suo lavoro di accanimento sul corpo ed elevò la testa spiccata con il tradizionale grido «Ecco la testa di un traditore!», non ci fu nessuna ovazione da parte della folla, come da copione, ma tutto un ammutolito scoprirsi il capo.
Le opere poetiche di padre Southwell vennero date alle stampe quello stesso anno senza alcuna obiezione da parte della censura ed ebbero un successo clamoroso. Evidentemente, dunque, non contenevano nulla di sedizioso. Anche William Shakespeare, che le aveva già lette in manoscritto, ne fu profondamente influenzato.
Ex cortigiani: Pounde di Belmont e Philip Howard
La ricusanza elisabettiana fu un fenomeno trasversale, non confinato a una classe sociale o a un ordine di vita, ed ebbe diversi rappresentanti persino a Corte. Ciò fu tanto più stupefacente quanto più aumentavano le pressioni governative. Alcuni, come il maestro di cappella reale William Byrd (il quale, tra l’altro, coraggiosamente musicò l’inno di padre Walpole in onore di padre Campion), furono lasciati relativamente in pace; altri dovettero pagare.
Thomas Pounde di Belmont, nato nel 1539, era primo cugino del conte di Southampton. Come il favorito regio Christopher Hatton, si fece strada a Corte danzando e recitando negli intrattenimenti di palazzo (detti masques). Era un bel giovane e la regina lo ricoprì di favori, fino ad ammetterlo tra i gentiluomini che le facevano da guardie del corpo. Ma un giorno, si dice, nel 1573, il bel cortigiano fece uno scivolone mentre ballava e si prese un calcio e un commento cattivo da Sua Maestà, il che lo ferì nell’orgoglio e gli rivelò un lato relativamente nascosto di Elizabeth. Secondo la tradizione, fu lì che prese la decisione definitiva di convertirsi.
Si diede allora all’assistenza dei prigionieri per la fede. Il suo comportamento destò sospetti; in breve, fu arrestato e gettato in prigione, dapprima per sei mesi, poi in modo definitivo. Dalla prigionia pregò un amico di scrivere al padre generale dei gesuiti, Everard Mercurian, implorandolo di ammetterlo nella Compagnia a distanza e sulla fiducia. Nel frattempo, insieme all’amico George Gilbert, aveva fondato una società di giovani laici consacrati che, provenienti da famiglie aristocratiche, rinunciavano a quasi tutti i loro beni per sovvenzionare la causa cattolica. Dopo tre anni di “prova”, nel 1578, padre Mercurian lo accettò nella Compagnia come fratello laico. Subì intanto numerosi interrogatori umilianti; fu fatto sfilare in catene, lui, nobile, per le vie di Londra. Fu messo alla tortura, ma non deviò di una virgola.
Il passo successivo di tutta la trafila sarebbe stato la condanna a morte; invece Pounde fu gettato in un sotterraneo, poi in varie prigioni, poi di nuovo nella Torre. Come padre Southwell, scrisse diverse poesie dalla prigionia; la più famosa è una satira contro il martirolgo protestante John Foxe, bersagliato anche da padre Persons per le bugie contenute nel monumentale Book of Martyrs. Pounde rimase prigioniero, in tutto, ventinove anni. Fu rilasciato sotto Re Giacomo, quando fu rilasciato anche il conte di Southampton (arrestato da Elizabeth per motivi politici). Morì dieci anni dopo, nel 1614. C’è chi, tra gli studiosi, vede un riferimento a lui nella località di Belmont (il mondo cattolico), opposta a Venezia (la Londra protestante), citata ne Il mercante di Venezia shakespeariano.
La famiglia di Philip Howard, quella dei duchi di Norfolk, imparentata con i Tudor, era stata la più potente del regno; ma poi, il suo bisnonno era stato gettato nella Torre da Enrico VIII, suo nonno era stato decapitato per motivi politici, suo padre idem sotto Elisabetta e le terre di Norfolk erano state espropriate dal governo. Così al giovane Philip rimaneva soltanto il titolo della madre, che era contessa di Arundel.
Nato nel 1557, fu fatto sposare a quattordici anni con la giovane Anne Dacre, che proveniva da una potente famiglia cattolica. Philip era invece stato allevato nella Chiesa di Stato, il suo precettore non altri che John Foxe. Dopo l’esecuzione del padre, legata al “problema” di Mary Stuart, egli visse qualche tempo con la moglie ma poi, entrato in possesso della proprietà materna e riammesso a Corte, si lanciò a capofitto in quel mondo dorato e luccicante. Fu molto vicino alla regina, della quale era cugino di terzo grado. Nel giro di poco tempo, Anne, virtualmente abbandonata e confinata in vari manieri in campagna, si riconciliò alla fede. Quando il fatto fu scoperto, la regina aggrottò le ciglia, Philip cadde in disgrazia e fu gettato nella Torre per un breve periodo. Pur non pensando ancora di convertirsi a sua volta, era però rimasto traumatizzato dal processo e dall’esecuzione di padre Campion, nel 1581. Scarcerato, fu rispedito a casa, dove si riconciliò con Anne.
La cosa non piacque a sua maestà, che mise Anne agli arresti domiciliari e ordinò a Philip di cambiare dimora. Sapendo bene cosa rischiava, egli si convertì a sua volta nel 1584; fu anch’egli rinchiuso in casa propria e allontanato dalla moglie. Cercò allora di fuggire all’estero, ma fu tradito e arrestato all’imbarco. Fu picchiato, multato di una cifra astronomica e gettato nella Torre senza processo. Fu condannato per alto tradimento nel 1588, dopo la sconfitta dell’Armada, accusato di aver pregato per gli invasori, ma la sentenza non fu eseguita. Nei suoi dieci anni di prigionia, in cui gli fu spesso offerta la libertà in cambio dell’abiura, ebbe tempo per meditare, pregare, scrivere. Le lettere di padre Southwell, ospite di Anne, furono fondamentali nel suo cammino di santità. Autore di pregevoli preghiere e ballate, resistette, senza mai più rivedere la sua famiglia, fino alla morte, nel 1595, l’anno in cui fu giustiziato anche l’amico gesuita.
Padre John Gerard
Chiamato «Long John of the little beard» dai suoi amici, era una figura imponente, alto e atletico; era anche aristocratico e colto. Nato nel 1564, “fuggì” a Douai a quattordici anni. Sperimentò il suo primo arresto a venti, rientrando provvisoriamente in patria per riprendersi da una malattia. Ma non era ancora un pesce grosso e fu rilasciato dietro pagamento di una cauzione; poté così fuggire di nuovo, questa volta a Roma, per entrare nel noviziato gesuita. Si imbarcò per la missione inglese, ancor prima dell’ordinazione sacerdotale, in un anno critico, il 1588; i suoi tre compagni di viaggio sarebbero stati tutti martirizzati, prima o poi. Si lanciò nella sua opera missionaria con entusiasmo e con grande successo: nessuno, al vederlo, avrebbe mai creduto che quel giovane gentiluomo, abilissimo cavallerizzo ed esperto falconiere, fosse in realtà un gesuita in incognito. Come i suoi compagni ed amici, fu sempre itinerante presso le grandi famiglie ricusanti; la sua opera evangelizzatrice fu grandiosa.
Numerose furono le sue avventure, gli arresti mancati per un soffio, i nascondigli più o meno improvvisati, le privazioni per sfuggire ai pursuivants.
Finché un giorno, mentre si trovava a Londra, fu identificato, arrestato e rinchiuso nella prigione di Marshalsea. Non si perdette certo d’animo per questo. Alla commissione inquisitoria dichiarò che non avrebbe dato alcuna risposta a domande concernenti altri. Accusato di distogliere la fedeltà dei sudditi dalla regina al Papa, rispose che la politica non lo riguardava e che i gesuiti erano sotto stretta proibizione di avere a che fare con faccende di Stato. Fu allora incarcerato, in attesa che le autorità decidessero che fare di lui. Trascorse mesi in catene; fu poi trasferito in diverse carceri di diverso rigore dalle quali riuscì egregiamente a portare avanti la sua opera di apostolato, e non solo tra carcerieri e compagni di pena. Molti andavano a trovarlo dall’esterno per confessarsi e ricevere direzione spirituale e, anzi, era diventato comodo per tutti sapere dove poter trovare padre Gerard senza possibilità di errore, lui che era sempre in fuga da una parte all’altra del regno.
Nonostante le condizioni di vita estremamente malsane, nonostante la mancanza di aria e luce, nonostante il fetore, le pulci, i topi, l’alimentazione scarsa e scadente, si dichiarò estremamente soddisfatto della sua nuova situazione. Persino il suo superiore, padre Garnet, scrisse al padre generale della Compagnia che il lavoro da lui svolto in prigione era tanto fruttuoso da sembrare quasi incredibile. Anche se sia Gerard, sia Garnet sapevano che non poteva durare.
Dopo quasi tre anni di carcere comune, infatti, egli fu trasferito nella Torre, il terrore di tutti i prigionieri, poiché tutti sapevano cosa avveniva nei suoi sotterranei. Durante un nuovo interrogatorio, continuando tranquillamente ad ammettere di voler convertire l’Inghilterra intera, padre Gerard dichiarò che ciò non equivaleva assolutamente a tradimento: tutti i suoi convertiti erano fedeli alla regina ed egli avrebbe voluto che anch’ella si convertisse, insieme a tutto il Privy Council e al parlamento. Poiché rifiutava di far nomi, fu affidato al notorio Richard Topcliffe, che lo sottopose più volte ai suoi trattamenti di favore. Come per padre Southwell, però, le torture non gli strapparono nessuna dichiarazione contro i suoi amici. Fu allora rispedito in cella.
Ora, nella cella accanto era rinchiuso a un gentiluomo cattolico del Warwickshire, Francis Arden (quasi certamente imparentato con la famiglia di Shakespeare), arrestato nove anni prima e ancora in attesa di esecuzione. I due prigionieri riuscivano a comunicare in tutta tranquillità, probabilmente corrompendo i corruttibili guardiani. La moglie di Arden riusciva di tanto in tanto, pagando chissà quale cifra, a far loro pervenire del pane e del vino con i quali egli celebrava Messa. Dalla Torre padre Gerard riusciva anche a corrispondere con padre Garnet. Con lui egli concordò un piano di fuga, non senza prima avergli chiesto se valesse la pena di tentare: qualora ciò avesse potuto essere controproducente per la causa cattolica, sarebbe rimasto tranquillo lì dove si trovava ad attendere l’esecuzione. Garnet lo incoraggiò a tentare purché facesse molta attenzione e, soprattutto, non mettesse altre vite a repentaglio. Per farla breve, il 4 ottobre 1597, trentatreesimo compleanno di “Long John”, due eroici fratelli laici gesuiti si accostarono alla Torre in barca e lanciarono una fune ai due prigionieri. John Gerard e Francis Arden furono così tra i pochissimi che riuscirono a fuggire dalla famigerata Torre di Londra. Il loro carceriere, che in breve tempo si convertì anch’egli, li seguì il mattino dopo.
Padre Gerard continuò indisturbato la sua pericolosa quanto fruttuosa attività missionaria fin oltre la fine del regno di Elizabeth. Infine, in occasione della congiura delle polveri, fu costretto alla fuga. Morì settantatreenne mentre era direttore spirituale di quel seminario inglese di Roma in cui aveva studiato da giovane. Ci rimane la sua splendida autobiografia, che racconta tutte le avventure, tutti i rischi, a cui un missionario elisabettiano andava incontro. Altro che terre selvagge ai confini del mondo.
Due Margherite (e John Roche)
Ormai, dal 1585, era alto tradimento ospitare un sacerdote cattolico e nasconderlo alle autorità. Di tale reato si macchiarono in molti, a quei tempi.
Margaret Clitherowe, la “Perla di York”, moglie di un macellaio, aveva tra i trenta e i trentatrè anni; si era convertita intorno ai diciotto ed era stata in prigione più di una volta. Rilasciata dietro pagamento di multe salate da parte del suo facoltoso (e protestante) marito, continuò imperterrita, sebbene nel modo più discreto possibile, la sua fervida attività di apostolato e assistenza. Fino a che, nel 1586, non rimase vittima della legge appena varata. Fu dunque arrestata nuovamente, non perché fosse stata colta sul fatto, ma perché fu trovato del materiale “incriminante” in casa sua e perché uno dei ragazzini che ospitava come apprendista era stato costretto a testimoniare contro di lei. Uno dei suoi ospiti, padre Francis Ingleby, fu scovato poco dopo e squartato in quanto sacerdote. Lei, invece, fu condannata a morte per… spappolamento, poiché questo prevedeva la legge nel caso in cui l’imputato non accettasse il processo e rifiutasse di dichiararsi colpevole o innocente.
Lo fece per diverse ragioni. Uno: gli unici testimoni del suo “misfatto” erano i suoi giovani figli e altri ragazzini, garzoni o simili, che vivevano in casa sua, sui quali si sarebbero accaniti i suoi persecutori fino a che non avessero dichiarato quanto si esigeva da loro. Due: voleva evitare che una giuria che la riteneva innocente fosse invece costretta a dichiararla colpevole, con tutti i sensi di colpa che ne sarebbero derivati. In casi simili, infatti, i giurati erano solitamente amici e parenti dell’imputato, che dovevano così dare prova della propria fedeltà alla regina condannando i loro cari (e macchiandosi di peccato mortale). Tre: un eventuale processo avrebbe portato alla luce i rapporti che ella aveva con gli altri ricusanti della città, facendo emergere il fatto, ad esempio, che la stanza che ella aveva adibito a cappella segreta era stata presa in affitto dai vicini; il che non avrebbe potuto non nuocere a quei vicini e ad altri amici che organizzavano Messe clandestine.
Era il 25 marzo 1586, festa dell’Annunciazione e primo giorno del nuovo anno. Margaret, che, tra l’altro, in quel momento non era certa di non essere gravida, fu spogliata, fatta sdraiare sopra una pietra appuntita e ancorata al suolo in posizione simile a un crocifisso. Le fu appoggiata sopra una porta di legno, sulla quale fu caricato un enorme peso di pietre e terra. Grazie all’intercessione di una gentildonna (protestante) di York, l’agonia durò “soltanto” una quindicina di minuti, invece dei tre giorni stabiliti dalla legge, prima del cedimento della cassa toracica. Il suo corpo fu lasciato in quella posizione per sei ore, dopodichè fu sepolto sotto un mucchio di letame. Sei settimane dopo i suoi amici lo riesumarono segretamente e gli diedero degna sepoltura. Meg Clitherowe fu la prima donna martire a noi nota del regime elisabettiano. La sua casa, nel centro storico di York, nel vecchio quartiere dei macellai chiamato a ragione The Shambles, è oggi meta di pellegrinaggio.
Margaret Ward fu invece una delle 33 vittime delle ritorsioni post-Armada, nel 1588. La sua storia ci è nota perché tramandataci da padre Southwell (che avrebbe subito il martirio sette anni dopo). Donna di buona famiglia, visse per qualche tempo nel rispettabile quartiere londinese di Whitehall, probabilmente come dama di compagnia. Le sue connessioni altolocate le permettevano di far visita ai prigionieri di Bridewell. Dapprima, come tutti i visitatori, fu perquisita ogni volta; poi, forse anche grazie a qualche mancia, i carcerieri chiusero un occhio ed ella contrabbandò una fune che portò a un sacerdote, padre William Watson; insieme concordarono un piano di fuga. Il giorno dell’evasione, Margaret era d’accordo con un barcaiolo che avrebbe atteso nei pressi. Purtroppo, però, durante la fuga padre Watson cadde e si ruppe un braccio e una gamba, il che non gli permise di recuperare la fune; conseguentemente, il barcaiolo si rifiutò di trasportarlo. Meg Ward si rivolse allora al giovane irlandese John Roche (forse servitore di lei), che non solo acconsentì al trasporto, ma scambiò anche i propri abiti con quelli del sacerdote. Padre Watson riuscì a fuggire; John Roche fu arrestato e condannato allo squartamento.
Anche Meg Ward fu immediatamente arrestata, perché era stata l’unica visitatrice di Watson, e torturata affinché rivelasse il nascondiglio del sacerdote, cosa che non fece. Fu frustata e lasciata appesa per i polsi tanto a lungo da rimanere storpia per via delle ossa dislocate; fu poi condannata a morire a Tyburn, pena insolita una donna. Naturalmente, come a quasi tutti gli altri, le fu offerto di avere salva la vita in cambio della presenza formale al servizio religioso di Stato. La morte di Meg Ward impressionò persino la regina, che in seguito perdonò altre due donne, condannate per delitti affini, che avevano affrontato il processo per tradimento con grande coraggio.
John Roche e Meg Ward sono ricordati nella piccola, antica chiesa londinese di Santa Ethelreda, dove le loro effigi sono tra le otto statue di martiri ai lati della navata (tra cui anche i due martiri enriciani John Forrest e John Hoghton).
Padre Watson, purtroppo, per il quale Meg Ward aveva dato la vita, non resse nel fervore e divenne uno dei capi della fazione cattolica degli “appellanti”, che si affermò verso la fine degli anni Novanta e rimase influente sotto James Stuart. Erano questi sacerdoti diocesani, ferocemente antigesuiti, che volevano scendere a compromessi con il governo accettando, di fatto, la supremazia regia e il servizio religioso di Stato in cambio di una fantomatica tolleranza che non venne mai. Molti anni dopo l’evasione, Watson fu coinvolto in una assurda congiura contro il re e, denunciato da padre Garnet, fu condannato per alto tradimento.
Nicholas Owen e padre Henry Garnet e la “Congiura delle Polveri”
I due gesuiti erano quasi inseparabili. L’uno, come si è detto, fu sacerdote e superiore della missione inglese per vent’anni, dal 1586 alla morte sul patibolo. L’altro, umilissimo fratello laico, suo servitore personale, lo aiutò a nascondersi per tutto il tempo e cercò infine di salvarlo a costo della vita.
Nicholas Owen era nato a Oxford intorno al 1564 da umile famiglia cattolica; diversi dei suoi fratelli, come lui, scelsero qualche forma di vita consacrata. Piccolo e storpio, falegname di professione, poco più che ventenne offrì i suoi servigi a padre Garnet, proprio nel momento in cui i gesuiti si erano resi conto che per continuare la missione era indispensabile perfezionare i piani di sbarco, accoglienza, mimetizzazione. Divenne in breve il miglior artefice in assoluto dei nascondigli speciali per sacerdoti, i miracolosi priest holes, molti dei quali restano a noi ignoti a tutt’oggi, che salvarono la vita a tanti missionari. Essi si resero necessari soprattutto a partire dall’inasprimento delle leggi del 1585, quello che travolse Meg Clitherowe e tanti altri. Più che di “buchi”, o tane, si trattava di anfratti e passaggi segreti perfettamente integrati nell’architettura delle grandi case manoriali dei ricusanti, mimetizzati tra mobili, scalinate, rivestimenti murari. Il coraggioso Owen, presto ribattezzato dagli amici “Little John” perché di giorno era spesso in compagnia di “Long John” Gerard, lavorava soprattutto di notte, nel modo più silenzioso possibile, in modo che neppure la servitù potesse notare i cambiamenti introdotti.
Già imprigionato diverse volte, fu di nuovo arrestato insieme a padre Gerard nel 1594, mentre i due intraprendevano la rievangelizzazione del Norfolk. Fu sottoposto a tortura nonostante la proibizione legale di torturare gli storpi. Per sua fortuna, il governo non sapeva ancora che era lui il misterioso artefice dei nascondigli e lo torturò “soltanto” per estorcergli informazioni generiche e perché rivelasse il nascondiglio di padre Garnet. Non parlò e fu rilasciato grazie all’intervento di un cattolico abbiente; continuò indisturbato il suo lavoro per parecchi anni, ben oltre la fine del regime elisabettiano.
Finché, nel novembre del 1605, non scoppiò la bomba (ma solo in senso metaforico) della Congiura delle Polveri. Nella caccia all’uomo senza precedenti che seguì, giacché Robert Cecil voleva assolutamente coinvolgere i gesuiti nella “congiura”, la perquisizione giunse a Hindlip, la dimora che Owen aveva dotato di più di dieci nascondigli e in cui si era rifugiato insieme a padre Garnet e altri sacerdoti. I ricercati si divisero e attesero. Owen e Ralph Ashley, un altro fratello laico, rimasero presto senza cibo e, dopo tre giorni di nascondimento, mentre ancora infuriava la perquisizione, dovettero uscire allo scoperto; tentarono di offrirsi in pasto ai pursuivants sperando di porre così fine alla caccia, risparmiando i sacerdoti nascosti negli altri “buchi”. Non funzionò: la ricerca continuò per altri quattro giorni fino a che non furono tutti trovati e identificati.
Ormai il governo conosceva il ruolo fondamentale di Nicholas Owen nella rete missionaria sotterranea: se avesse parlato, essa non avrebbe più avuto segreti per i servizi governativi e quasi tutti i sacerdoti cattolici presenti su suolo inglese sarebbero stati arrestati, insieme alle famiglie che li ospitavano. La sua tortura fu dunque particolarmente accurata e feroce. Tanto feroce, rifiutandosi egli di parlare, da ucciderlo, il 2 marzo del 1606. Per errore, certo, perché avrebbero voluto che parlasse, non che morisse. In ogni modo, per infangare il suo nome, diffusero la falsa notizia che si fosse tolto la vita nel timore di un’altra sessione di tortura. “Little John” non si era lasciato sfuggire nulla: non un nome, non un indizio.
Henry Garnet veniva da una famiglia gentilizia, che si distingueva da diverse generazioni quanto a erudizione. Nacque tra il 1553 e il 1555 nel Derbyshire e crebbe a Nottingham, dove suo padre, un “papista di chiesa”, era il direttore della Grammar School. I ragazzi furono segretamente cresciuti nella fede cattolica: più tardi, le tre figlie fuggirono in Europa per entrare in convento. Il giovane Henry avrebbe dovuto andare a studiare a Oxford; la cosa non s’ebbe a fare, però, quando suo fratello maggiore ne fu espulso per aver praticato segretamente il suo cattolicesimo e per aver tenuto in camera una statua della Vergine. Henry dovette dunque cercarsi un mestiere e divenne apprendista del famoso stampatore Richard Tottel, a Londra. La conoscenza dell’arte tipografica gli tornò poi estremamente utile.
Dopo tre anni di apprendistato decise, insieme a un amico, di fuggire all’estero per entrare nella Compagnia di Gesù. Andarono in nave in Portogallo, poi a piedi a Santiago de Compostela e infine a Roma, al Collegio di Sant’Andrea, per il noviziato. Due anni dopo, nel 1577, fu ammesso nella Società e si trasferì al collegio di Sant’Ignazio, dove poté fruire dell’insegnamento di luminari dello stampo di Bellarmino, Suarez, Clavio. Divenne in breve docente di filosofia, matematica, ebraico.
Dopo undici anni di vita accademica si offrì di partecipare alla missione inglese; lasciò dunque Roma nel 1586 insieme a padre Southwell. Giunti in Patria, i due missionari si ricongiunsero all’unico gesuita rimastovi, un grande amico di Garnet, padre William Weston, il quale rimase a piede libero, dopo il loro arrivo, solo per pochi mesi. Al che padre Garnet fu nominato superiore della missione e, di conseguenza, divenne il bersaglio numero uno del governo di William Cecil. Passò ben vent’anni in Patria, nel nascondimento, sotto diversi alias, protetto dalla solita rete di amici, veri e falsi, a volte salvandosi per un soffio. Grazie a lui la rete missionaria cattolica vide di nuovo una tipografia clandestina, che diffuse, tra l’altro, l’opera apologetica di padre Southwell. Le sue maggiori protettrici furono le sorelle Vaux, la cui famiglia, tanto per cambiare, era stata mandata in rovina dalle leggi di ricusanza.
Gli anni Novanta videro una ulteriore recrudescenza delle leggi anticattoliche e della persecuzione; tra i tanti, il martirio di padre Walpole e di padre Southwell. Nel 1597 un giovane sacerdote, Christopher Robinson, fu giustiziato barbaramente, tra atroci sofferenze, a Carlisle, nel Nord; poco dopo accadde lo stesso a York per un altro sacerdote e tre laici. Padre Gerard, come si è detto, era invece riuscito a evadere dalla Torre dopo tre anni di prigionia.
Poi, nel 1603, la regina morì e re Giacomo di Scozia, che venne a Londra a prendersi il trono offertogli da Robert Cecil su un piatto d’argento, ostentò tolleranza per tutti, persino per i cattolici; fino a che non si accorse che, senza persecuzione, i papisti aumentavano in modo esponenziale persino a Corte. Stipulata frattanto, l’anno seguente, una pace definitiva con la Spagna, e tolto a quel Paese il motivo principale per sentirsi incline a proteggere i cattolici inglesi, tornò a inasprire leggi e persecuzioni. Finché, come dice la vulgata, un gruppo di giovani gentiluomini cattolici, stufi di essere defraudati di beni e di diritti, ricorsero a un piano folle e disperato per liberarsi del re e di tutto il parlamento. La versione ufficiosa, ben più plausibile, è che Cecil avesse intuito che ci voleva un colpo grosso per sradicare l’antica fede dal cuore degli inglesi. Fatto sta che, come tutti sanno, Guy Fawkes fu colto con “le mani nel sacco” proprio nel momento in cui “stava per accendere la miccia”. Mai fu congiura esposta e raccontata con maggiore dovizia di particolari; mai fu una simile sovrabbondanza di dettagli meno convincente e più contraddittoria. Dopo che, come al solito, i congiurati furono portati a dichiarare tutto quanto gli inquisitori volevano sentire, furono messi a morte. In fretta e furia, perché nel frattempo gli agenti governativi erano riusciti a mettere le mani su padre Garnet e sui suoi compagni; e nessun congiurato doveva testimoniare che i gesuiti non c’entravano.
In realtà padre Garnet era venuto a sapere che Robert Catesby, l’artefice della congiura (forse al soldo di Cecil stesso) stava organizzando qualcosa di tremendo, ma lo aveva pregato di desistere, di qualunque cosa si trattasse, per il bene dell’intera causa cattolica in Inghilterra. Questo suo sapere fu, ovviamente, usato contro di lui e il superiore della missione fu trasformato dagli “inquirenti” governativi nella mente stessa del complotto. Mentre padre Garnet veniva interrogato, e forse torturato affinché ammettesse di essere a parte della congiura, “Little John” veniva fatto a pezzi dai carnefici.
Il superiore dei gesuiti inglesi fu giustiziato il 3 maggio 1606; come per padre Southwell, però, la folla non permise che fosse squartato vivo ma gli assicurò una morte rapida tirandolo per i piedi. Nonostante il governo avesse fatto tutto quanto era in suo potere per infangarne la reputazione e, pare, avesse persino costretto il più grande drammaturgo di tutti i tempi a fare lo stesso (nel famoso atto secondo del Macbeth), la gente non si era lasciata ingannare. Quel medesimo giorno padre John Gerard, ormai il ricercato numero uno, riuscì a imbarcarsi sotto mentite spoglie sulla nave che lo avrebbe portato lontano per sempre.
Subito dopo l’esecuzione di padre Garnet si sparse la voce di eventi miracolosi: la testa impalata non si era annerita, come capitava di solito, in seguito al trattamento di bollitura. Dopo sei settimane, poiché numerosi gruppi di passanti si fermavano a contemplare quel volto bianco e a pregare, il governo decretò che fosse girata a faccia in su. Ma non riuscì a controllare l’altro miracolo, quello della “paglia di Garnet”: una brattea di mais su cui, si dice, durante l’esecuzione erano schizzate gocce di sangue che avevano disegnato esattamente il volto del martire. La preziosa reliquia fu gelosamente custodita, in una piccola teca di cristallo, dapprima presso l’ambasciata spagnola di Londra e poi presso i padri gesuiti di Lièges; in seguito se ne perdettero le tracce nel crogiolo della Rivoluzione Francese (l’ultima menzione risale al 1797).
La versione governativa della storia fu data alle stampe insieme a molti altri opuscoli pieni di particolari tanto dettagliati quanto poco credibili. Sopravvive, tra gli altri documenti, una copia del processo a padre Garnet e ai suoi “complici” in edizione di lusso rilegato in pelle umana, quella del condannato; artefice del pregiato libro non altri che lo stampatore reale, Robert Barker. Pare che simili procedimenti fossero consuetudine, sebbene negli anni a seguire si cercasse di non farne troppa pubblicità. Il volumetto fece parlare di sé piuttosto di recente, quando, il 2 dicembre 2007, fu messa all’asta a Doncaster e venduta per 5.400 sterline.
Mentre Nicholas “Little John” Owen fu canonizzato dalla Chiesa Cattolica, lo stesso non è avvenuto per padre Henry Garnet; perché, tecnicamente, la sua condanna ebbe luogo “soltanto” per motivi politici e, si dice, la sua posizione riguardo il complotto non potrà mai essere chiarita definitivamente. Neanche se, dopo la sua esecuzione, diversi furono i miracoli e le grazie a lui attribuiti (non ultimo la fuga di padre Gerard). Tanto è riuscito a fare il regime ceciliano.
Elisabetta Sala