La tecnica nelle prime culture
La civiltà egiziana, di cui non si può non ammirare lo splendore e anche l’originalità, era una civiltà chiusa. Il suo contributo alla formazione delle civiltà successive fu molto scarso. Le cognizioni scientifiche egiziane non si legavano sistematicamente fra loro. Non si inserivano in un vero e proprio pensiero scientifico che potesse inglobarle e dar loro un significato teoretico. Da queste cognizioni, insomma, non nacque un sapere scientifico.
Tanto nella cultura egizia, quanto in quella assira e babilonese, pur coltivandosi la matematica e pur non ignorandosi la meccanica, non venne fuori un desiderio di utilizzare le macchine per fini pratici. La scienza non divenne tecnica. Presso quei popoli le condizioni sociali non furono favorevoli al progresso tecnico. Non si aveva interesse ad inventare macchine utili, perché enorme era la disponibilità di schiavi. Per quale motivo lambiccarsi il cervello per creare delle novità, quando c’erano tante braccia disponibili portate in patria da vittoriose campagne militari?
In queste prime culture, la scienza non divenne tecnica per una ben determinata concezione culturale. L’uomo era ritenuto incapace di modificare una dinamica storica che ciclicamente lo imprigionava. A che scopo concentrarsi per migliorare le proprie condizioni materiali di vita se tutto era già deciso?
Gli storici dell’Antico Egitto convergono sulla perpetuità come peculiarità di questa civiltà. Dopo l’unificazione da parte di Menes, l’Egitto costituì il primo vero Stato dell’antichità e i Faraoni vi regnarono almeno per ben trenta dinastie. Per tre millenni non una modifica sostanziale nell’ordinamento politico e sociale. Tutto era all’insegna della perpetuità. Tutto all’insegna della ciclicità.
La tecnica nella cultura classica
C’è chi dice che sia stata soprattutto la cultura greca, e non tanto quella cristiana, ad indirizzare la civiltà mediterranea ed europea allo spirito scientifico e tecnologico. Ciò è storicamente falso e lo si può dimostrare facilmente.
Il contributo del pensiero greco è stato certamente importante, ma non determinante. Nel periodo in cui questo pensiero era protagonista nel bacino del Mediterraneo, in Mesopotamia vi fu un grado di sviluppo della tecnica non certo inferiore, anzi per alcuni versi anche superiore a quello greco e a quello dell’intero contesto mediterraneo. Fu dopo il diffondersi del Cristianesimo che nel bacino del Mediterraneo si verificò un’evidente accelerazione del progresso tecnologico.
Nella Grecia antica, l’idea di scienza non era sempre corollario di senso del progresso e quindi di sviluppo della tecnica. La conoscenza scientifica non sempre si accompagnava alla necessità della ricerca per migliorare le condizioni materiali di vita.
La convinzione secondo cui bisognasse migliorare le proprie conoscenze scientifiche al fine di dar loro una applicazione pratica era del tutto assente in Aristotele, anche se questi diede un grande contributo allo sviluppo dell’interesse per la natura e alla formazione di una mentalità realistica.
Non la si ritrova neppure in Archimede, malgrado le sue macchine fossero sofisticate e per certi versi anche moderne. Fu l’assedio di Siracusa a spingerlo ad un’applicazione pratica della sua scienza. Lo dovette fare per un dovere di guerra, ma a malincuore, affezionato com’era all’astrattezza dei suoi calcoli geometrici.
La cultura greca aveva una connotazione astratta. Forse per influenze gnostiche e orientali (si pensi all’Orfismo) ciò che era davvero importante e nobilitante per l’uomo era solo l’attività intellettuale. Anche qui la dimensione dinamica e il lavoro manuale erano esclusi dalla realizzazione autentica dell’uomo. La famosa matematica greca rimase in una dimensione di astrazione.
Anche nel contesto della Grecia e di Roma antiche, la mancanza di una scienza che divenisse tecnica era certamente da attribuire anche alla pratica della schiavitù. Erone di Alessandria, considerato l’inventore per eccellenza dell’antichità – colui che nella sua opera Misure introdusse le misure fisse per la prima volta nella storia della scienza – costruì solo meccanismi ingegnosi, tra cui una rudimentale turbina a vapore. Ma né a lui, né a nessun altro, passò per la mente che quella macchina sarebbe potuta servire per sollevare la gente dalla fatica del lavoro. A che scopo con tante braccia di schiavi? E così gli originali ingegni di Erone vennero usati soltanto per creare giochi di scena nei teatri. La “comodità” degli schiavi impedì anche a Roma lo sviluppo della tecnica. Considerati bestie dal volto di uomini, non avevano nessun diritto, né potevano rivendicare alcuna garanzia.
La tecnica nella cultura orientale
È altrettanto innegabile quanto nella cultura orientale lo sviluppo tecnologico non abbia trovato un terreno molto fertile.
Nell’Induismo non c’è modo di praticare la religione se non staticamente. Se, monisticamente, l’uomo non è altro che il suo spirito – perché è fondamentalmente nello spirito che si coglie l’uguaglianza ontologica con l’assoluto – allora è evidente che ci sarà un solo modo di comunicare con l’assoluto, e questo modo non è altro che la contemplazione, l’esperienza estatica. L’esperienza dinamica, il lavoro, non possono essere mezzi con i quali mettersi in comunicazione con l’assoluto.
Nella prospettiva indù, l’uomo non esiste come individualità. Il corpo è una “prigione”, costituisce una sorta di “cattività”, per cui non ha senso migliorarne le condizioni di vita. Una eccessiva attenzione nei suoi confronti costituirebbe una sorta di bestemmia.
Considerando queste convinzioni, come sarebbe potuto venir fuori il desiderio di faticare al fine di rendere più confortevole la vita di quel corpo, tanto negativo, la cui soppressione non costituisce neppure occasione di compassione?
Il fatalismo indù non può permettere una sensibilità tecnica. L’uomo non può nulla e non gli è permesso di modificare la propria vita. Se pretendesse farlo, sarebbe solo una ribellione all’infallibile legge del karman, che “legittimamente” avrebbe il diritto di decretare la condizione da patire per ogni uomo.
La tecnica nella cultura islamica
Facendo tesoro dell’esperienza della scienza del mondo classico e anche del patrimonio scientifico di contesti non ellenici (Persia, India e Cina), la scienza islamica riuscì ad apportare progressi significativi nel campo della matematica, dell’astronomia, della medicina. Fondò l’algebra, la trigonometria e pose le premesse dell’ottica. Diede un contributo significativo alla chimica. Ciò malgrado, in questa cultura non si sviluppò una vera e propria sensibilità scientifica. Vediamo perché.
Per i musulmani il Corano va inteso diversamente da come i cristiani intendono la Bibbia. Il Corano non è un libro ispirato, ma una vera e propria manifestazione di Dio. Conterrebbe tutto ciò che è necessario sapere per la vita dell’uomo. Tutto, proprio tutto... e non solo le verità riguardanti la fede e la morale. Ciò che non è nel Corano è superfluo. Ciò che non è nel Corano, per il fatto stesso di essere al di fuori del libro sacro, èé da ritenersi perfino pericoloso. Questa convinzione, vincolante per tutti i musulmani, causa inevitabilmente la negazione di ogni progresso, la rinuncia ad ogni autentica ricerca scientifica.
L’Islam sembra impedito a qualsiasi seria istanza tecnico-scientifica anche a causa di un altro elemento della sua dottrina. Mi riferisco alla negazione dei cosiddetti preambula fidei. La dottrina islamica non fa propria l’analogia entis, cioè quel metodo che permette di conoscere, seppure in maniera incompleta, il Creatore procedendo analogicamente dall’osservazione del creato. Questo rifiuto del metodo analogico produce una prospettiva fideistica (cioè solo la fede conta, mentre la ragione allontanerebbe inevitabilmente dalla verità), che ha ripercussioni in campo scientifico. Come la ragione è estranea al cammino più importante che l’uomo deve percorrere (quello verso Dio), così l’attività scientifica è da considerarsi altrettanto estranea a ciò che conta nella vita del mondo. Pensatori e scienziati musulmani hanno cercato nel corso della storia di conciliare sviluppo scientifico con Il Corano, ma sono stati tentativi che hanno fallito. Nella sua opera, Confutazione dei filosofi, Al-Ghazzali denuncia l’inutilità di questi tentativi.
Oggi è possibile confutare la convinzione secondo cui nei primi secoli della cultura islamica il mondo arabo sarebbe stato più sviluppato tecnologicamente rispetto a quello cristiano. In realtà, la cultura islamica di quel periodo doveva molto alla grande tradizione cristiana greco-bizantina. Dopo la morte di Maometto, i musulmani, venendo dalla penisola arabica, entrarono in contatto con la grande cultura ellenistica, e in particolar modo con quella cristiana. Per almeno quattro secoli, i califfi si rivolgevano a scienziati cristiani per avere nelle loro corti maestri di logica, di filosofia, di matematica, di medicina, di astronomia, ecc... Ancora fino al X secolo la stragrande maggioranza dei medici erano cristiani. Qualche esempio: il più famoso oculista alla corte di Baghdad nell’XI secolo è un cristiano melchita, Isa Al Kahlal. Cristiano è anche Hunayn Ibn Ishaq, colui che nel IX secolo venne incaricato di tradurre dal greco e dal siriaco più di cento opere di medicina e di filosofia, che rappresentano la summa del sapere dell’epoca. Il grande periodo ricordato dalla storia come il “rinascimento arabo”, che va dal IX all’XI secolo, nacque dall’incontro di un potere politico ed economico, detenuti dai musulmani, con una tradizione culturale greco-bizantina, di cui i cristiani erano gli eredi. Cultura, però, che non è mai stata utilizzata per progredire e i mutakallimûn, cioè i teologi, la respinsero con decisione. Il declino dell’Islam cominciò proprio quando i musulmani vollero far da sé, ritenendo di poter fondare sul Corano e sulla tradizione islamica le strutture di una nuova civiltà, rifiutando in tal modo la cultura cristiana.
Corrado Gnerre