Malgrado le difficoltà nel poter individuare quale concezione del corpo si sviluppi nelle prime culture, uno studioso come Julien Ries è categorico parlando dell’Antico Egitto: «
Il corpo umano viene [solo]
concepito come un sostegno materiale il cui carattere non é né unico né irripetibile e la cui forma può variare. Costituisce la base materiale all’esistenza umana, base su cui realizzano la loro unione i tre princìpi spirituali, ‘Ka’, ‘Ba’ e ‘Akh’, e questa unione è indispensabile al mantenimento della vita» (
Il rapporto uomo-Dio nelle grandi religioni precristiane, Milano, 1983, p.17).
Nelle prime culture vi è – in maniera esplicita o in maniera implicita – la convinzione che tutto debba dissolversi, perché esisterebbe solo un Tutto onnicomprensivo e non singole individualità.
Nel mito egizio più famoso, Seth (dio malvagio) cattura il fratello Osiride (dio benefico). Lo uccide, pone il cadavere in un sarcofago e lo getta in mare. Il cadavere giunge fino alle spiagge del Libano e qui viene ritrovato dalla moglie Iside. Seth, scoprendo il ritrovamento, fa tagliare il corpo di Osiride in quattordici pezzi, spargendoli per tutto il territorio dell’Egitto. Ma Iside non si dà per vinta e, con l’aiuto del figlio Oro e di Anubi (il dio-sciacallo), ricompone il corpo del marito e Osiride può risorgere. L’immagine della frantumazione del corpo di Osiride e la diffusione dei suoi resti per tutto il territorio, stanno a significare la convinzione secondo cui è il corpo di questo Dio a fondare l’Egitto stesso. È vero che Osiride viene dissolto, ma è pur vero che, in questo modo, tutto diviene Osiride.
La concezione ciclica della storia, che è fortemente presente nelle culture precristiane, apre la strada a concezioni
reincarnazionistiche o
protoreincarnazionistiche, in cui il corpo si riduce ad una semplice realtà temporale ed intercambiabile. Nelle prime culture non sempre si può parlare di reincarnazione
in senso preciso (la credenza secondo cui l’anima si reincarni dopo la morte in un altro corpo ancora), a volte si riscontra un
protoreincarnazionismo, cioè un
reincarnazionismomoncato del suo esito ultraterreno e solo appiattito sulle vicende della storia. Se la vita non ha, né può avere, alcuna novità, perché tutto è eterna ripetizione, allora la specificità e l’orginalità del corpo non hanno alcun senso, non hanno alcun valore storicamente considerevole. Tutto si ripeterà, per cui la propria individualità corporale non costituisce qualcosa di irripetibile. Meglio: può costituire qualcosa di irripetibile ma solo nel senso di “attrezzo”, che, non più utilizzato, viene buttato perché inutile. Un attrezzo che non ha detto nulla, né ha potuto dir nulla, perché la storia è solo ripetizione, impedimento di novità.
Nella cultura dell’Antico Egitto ci sono elementi che possono ingannare e spingere a ritenere che il corpo sia qualcosa di importante: le sviluppate tecniche mediche, così come le originali metodiche di trattamento dei cadaveri. Ma c’erano anche elementi che dimostrano il contrario, che cioè al corpo non veniva riconosciuto un adeguato fondamento religioso né, tantomeno, filosofico. A differenza di quanto apparentemente possa sembrare, la convinzione secondo cui, dopo la morte, il corpo dovesse essere “trattato” – pena l’impossibilità di avere l’eternità – non voleva dire che il corpo avesse connotazioni positive. Gli antichi egiziani chiamavano “campo dei giunchi” l’eternità da conquistare. Si trattava di un campo inteso come luogo dove erano stati creati gli dèi. Si credeva che l’importante dio Osiride assegnasse al defunto un pezzo di terra del campo per coltivarlo. Dunque, affinché il corpo umano potesse rapportarsi al divino aveva bisogno di essere curato, trattato, trasformato. Non perché il corpo fosse stato rovinato dall’uomo – il contesto religioso egizio non conosce, infatti, peccato originale – ma perché di per sé inadatto a vivere nella dimensione ultraterrena. Era questa una concezione riduttiva del corpo. Il corpo, senza adeguati accorgimenti, rituali e suppellettili, non poteva meritare una situazione esistenzialmente gratificante.
Il corpo nella cultura classica
Facciamo adesso un breve discorso sul rapporto tra corpo e cultura del mondo classico.
Partirò da un dato di fatto: la cultura del mondo classico è una cultura fondamentalmente intellettualistica. Ciò determinò una concezione ideale del corpo, con il conseguente, teorizzato, rifiuto del corpo reale, limitato e deficiente.
Tanto nell’Antica Grecia quanto nell’Antica Roma era diffusa l’usanza di rifiutare (e quindi far morire) i figli deformi. Si potrebbe pensare che una simile pratica muovesse da un’eccessiva, esagerata, attenzione alla bellezza e alla perfezione del corpo. Ma non è così. Era una pratica invece che stava a significare ben altro. L’elemento della deformità corporale era rifiutato nel mondo classico non perché segno di un corpo da ritenersi indeformabile, ma perché segno che andava a pregiudicare una certa idea di corpo. La valorizzazione del corpo si ha quando ad essere valorizzato è un concetto di corpo così come è nella realtà. L’affermazione che l’uomo è solo intelletto, che il suo principio di definizione è il pensiero e le sue potenzialità, conduce o ad un rifiuto della dignità corporale dell’uomo o ad un rifiuto di ciò che sottolinea la “pesantezza” del corpo: il limite. L’accettazione del corpo implica l’accettazione del limite, che è costitutivamente presente nel corpo stesso. Rifiutare il limite e le sue conseguenze, cioè la deformità, significava rifiutare il corpo nel suo fondamento filosofico. Accettare un corpo ideale, non contrassegnato dal limite, costituiva anche un inconscio rifiuto di un corpo che è nella realtà ma che non è corrispondente ai desideri. Pensare ad un corpo ideale non è altro che l’esito del rifiuto del corpo reale. Valorizzare solo un corpo ideale è svalutazione del corpo reale. Così la meraviglia dei genitori per una nuova vita corporale era tenuta sotto condizione dalle culture del mondo classico. Quale meraviglia, quale gioia per un corpo deforme o solo imperfetto?
Il corpo nella cultura orientale
La cultura orientale è forse l’esempio più significativo di cultura che non valorizza il corpo.
Sono costretto a semplificare – forse un po’ troppo – ma non posso disperdermi e far disperdere il lettore in tanti distinguo. Nelle religioni dell’Oriente il corpo viene ritenuto una specie di “prigione dello spirito”. L’uomo, nella sua componente spirituale, è come un “pezzettino” di Dio, provvisoriamente separatosi da Dio stesso... ed è costretto a vivere nella “cattività”
di un corpo.
Tutto il discorso salvifico della religiosità orientale verte sul fatto che la realizzazione dell’uomo è nella spersonalizzazione. Nella possibilità di potersi finalmente liberare dal ciclo continuo di reincarnazioni per poter nuovamente divenire una cosa sola con il
brahman (l’assoluto).
Se l’individualità ha solamente una durata transitoria, che valore può avere il corpo, segno tangibile di questa individualità? «
Mio caro, – dice ancora il brahmano Uddâlaka a suo figlio Shavetaketu –
per fare il miele, le api raccolgono i succhi delle piante più diverse e poi li amalgamano in un succo solo. Come quei diversi succhi, una volta che siano amalgamati in un succo solo, non si distinguono più l’uno come succo di una tale pianta, così, mio caro, tutte le creature, una volta che si siano immerse nell’Essere, non sanno di essere immerse nell’Essere (
ivi).
Ci sono delle conseguenze sul piano sociale e culturale di questo atteggiamento della cultura orientale nei confronti del corpo. L’attenzione nei confronti del corpo, la cura di esso da parte della cultura orientale non sono storicamente paragonabili a ciò che è riscontrabile nella cultura occidentale-cristiana. Si deve sì riconoscere che la medicina orientale ha raggiunto buoni risultati, ma validi, solitamente, a livello settoriale. Da un punto di vista generale non reggono i paragoni con i successi raggiunti dalla medicina occidentale. Basterebbe considerare quanto la medicina orientale sia stata importata in Occidente e quanto quella occidentale lo sia stata in Oriente.
Il corpo nella cultura islamica
Anche per la cultura islamica vien fuori un equivoco. Sembra che questa cultura attesti una forte attenzione al valore del corpo, un’attenzione che aprirebbe ad un vero e proprio corporeismo. Ma, attenzione, anche in questo caso non ci si deve fare ingannare dalle apparenze.
C’è qualcosa nell’Islam che può trarre in inganno, come – per esempio – la concezione sensuale del paradiso e la credenza nella resurrezione dei corpi. Se nell’Islam si trova un’attenzione al corpo, che diviene concezione materialistica della vita ultraterrena, è pur vero che nella dottrina islamica della salvezza la corporeità non rientra nella sfera morale. L’inferno eterno – perché nell’Islam vi è anche un inferno temporaneo – è solo per i miscredenti, cioè per coloro che non credono che Allah è l’unico Dio e Maometto il suo più grande profeta. «Poi libereremo quelli che ci temono e lasceremo gli iniqui, (nell’inferno), genuflessi» (Ivi, XIX, 73). Certo, per l’Islam le opere corporali hanno pure la loro importanza – per esempio l’elemosina rituale, ultimo dei cosiddetti cinque pilastri – ma queste non concorrono direttamente alla conquista del paradiso. Ora, escludere – anche se solo in una certa misura – il corpo dalla via della salvezza, vuol dire attribuire ad esso una dignità relativa.
Bibliografia
- Corrado Gnerre, Studiare l’uomo per rafforzare la Fede, 2° edizione ampliata, Studi apologetici Joseph oboedientissimus, Benevento 2012.
Corrado Gnerre