Proseguendo il prezioso lavoro di ricerca filosofica, sia storico-critica che teoretica, sviluppato nel Novecento da Étienne Gilson, si può elaborare un sistema che mira a una fondata rivendicazione della possibilità, anzi della necessità della metafisica realistica in un’epoca che sembra segnare il trionfo definitivo del soggettivismo, affermatosi ormai anche nell’ambito degli studi teologici, tanto da determinare quella “dittatura del relativismo” denunciata con viva preoccupazione pastorale dal Papa Benedetto XVI.
Il cammino del soggettivismo filosofico e la reazione della teologia cattolica
In teologia, infatti, il soggettivismo della filosofia che nella modernità ha acquisito una posizione egemone ― la filosofia che parte nel Seicento dal cartesiano Discours de la méthode, passa nel Settecento attraverso il razionalismo monistico di Spinoza e lo scetticismo sensistico di Hume, e giunge nell’Ottocento alla dialettica di razionalismo (Hegel) e fideismo (Kierkegaard) ― ha determinato la progressiva trasformazione di quella che dovrebbe essere la “scienza della fede” in una “filosofia religiosa” di stampo, appunto, soggettivistico, sia nella versione razionalistica che in quella fideistica.
Si tratta di una deriva teologica, apparentemente inarrestabile, che il magistero della Chiesa ha invano tentato di arginare: prima, nel 1870, con la costituzione dogmatica Dei Filius del Concilio ecumenico Vaticano I; poi con l’enciclica Aeterni Patris di Papa Leone XIII (1879) e con l’enciclicaHumani generis di Papa Pio XII (1950), e infine con l’enciclica Fides et ratio di Papa Giovanni Paolo II (1998).
Quest’ultimo documento del magistero ecclesiastico ― un documento che riguarda direttamente la filosofia ed è scritto da un papa filosofo ― è quanto mai esplicito nell’affermare, da una parte, che la filosofia è indispensabile per la teologia, e, dall’altra, che non ogni filosofia è compatibile con le premesse razionali della fede e quindi non ogni filosofia può essere utilizzata dalla teologia. In particolare Papa Wojtyla ribadisce che la fede cristiana presuppone ― ancor prima della filosofia vera e propria ― la verità delle certezze fondamentali dell’esperienza e dei principi che da essa derivano, ossia quella che l’enciclica denomina «filosofia implicita» e che si può chiamare, con un termine in uso nella filosofia moderna anti-cartesiana, il “senso comune”.
Poi, parlando della filosofia in senso propriamente scientifico, la Fides et ratio specifica che l’unica espressione della recta ratio compatibile con la fede è quella che tradizionalmente è denominata “metafisica” ed è capace di far passare l’indagine razionale «dal fenomeno al fondamento». Il metodo filosofico contrario è appunto quello che sfocia in posizioni teoretiche di stampo razionalistico o fideistico.
Metafisica e senso comune
Gli insegnamenti della Fides et ratio incoraggiano ad approfondire una linea di ricerca filosofica che già molti anni avevano portato a evidenziare, sempre sulla scorta del pensiero di Gilson, il nesso intrinseco che unisce la verità che la ragione umana è in grado di accertare ― prima e sempre, al livello del senso comune, poi eventualmente con la riflessione filosofica ― alla verità che la fede soprannaturale riceve dalla rivelazione divina e accoglie con la fede.
Il risultato di questa ricerca consiste nella rivendicazione del primato logico-aletico del “senso comune” o “filosofia implicita” sulla scienza (tanto filosofica quanto teologica): primato che, per quanto riguarda direttamente la filosofia, consente di individuare e di valorizzare il nesso logico che lega l’autentica metafisica al senso comune; e che di conseguenza, per quanto riguarda la teologia, la necessità che la “scienza della fede” (ma già la stessa catechesi) consente di individuare e di valorizzare nella dottrina della fede ― di per sé suscettibile di molte diverse ipotesi di interpretazione al livello della riflessione scientifica e dell’applicazione pastorale ― quel “nucleo” di verità che è necessariamente accessibile a ogni intelligenza e pertanto deve essere compreso senza equivoci sulla base delle categorie metafisiche proprie del senso comune.
Questo “nucleo” di verità, che si può denominare “nucleo dogmatico” e che non deve essere mai obliterato dalla catechesi e dalla teologia in quanto trascende ogni possibile interpretazione storico-cultuale, è stato esplicitamente richiamato anche dal Papa Benedetto XVI quando rileva con rammarico che «il cristiano spesso non conosce neppure il nucleo centrale della propria fede cattolica, del Credo, così da lasciare spazio ad un certo sincretismo e relativismo religioso, senza chiarezza sulle verità da credere e sulla singolarità salvifica del cristianesimo. Non è così lontano oggi il rischio di costruire, per così dire, una religione “fai-da-te”. Dobbiamo, invece, tornare a Dio, al Dio di Gesù Cristo, dobbiamo riscoprire il messaggio del Vangelo, farlo entrare in modo più profondo nelle nostre coscienze e nella vita quotidiana» (Udienza Generale del 17 ottobre 2012).
La filosofia del senso comune
Il fondamento scientifico (logico-aletico) di questa conclusione logico-epistemica applicata alla teologica sta nella filosofia del senso comune, consistente in due tesi tra loro collegate: 1) la prima, contenuta in un mio trattato intitolato Filosofia del senso comune, afferma l’impossibilità che un qualsivoglia giudizio (momento decisivo del pensiero e luogo della verità logica) neghi o ignori il valore di verità assoluta e universale (the truth-value) che compete in esclusiva a cinque ben determinate evidenze empiriche (l’esistenza del mondo, dell’io come soggetto, degli altri soggetti, dell’ordine morale, di Dio come causa prima di tutto); 2) la seconda, oggetto di un altro mio saggio intitolato Metafisica e senso comune, afferma che la vera metafisica (non quella razionalistica, che sfocia nella dialettica hegeliana) non è altro che la formulazione scientifica e la giustificazione epistemica di quelle cinque certezze che costituiscono il senso comune.
Gli studiosi italiani che oggi non hanno ancora superato il pregiudizio kantiano continuano a respingere questa rivendicazione della metafisica, parlando di vani tentativi di riportare il dibattito filosofico ad epoche pre-critiche; altri invece, più aggiornati quanto agli sviluppi delle ricerche logiche in Europa e in America, hanno preso in seria considerazione il mio discorso e sono arrivati alla conclusione che esso muove da ragioni in gran parte nuove, in quanto basata sulla nozione epistemica di “senso comune”, che si rifà non tanto alla filosofia antica e medioevale quanto piuttosto alla filosofia moderna anti-cartesiana e alla filosofia contemporanea di scuola analitica. In particolare, i commenti di Evandro Agazzi, di Francesco Arzillo, di Roberto Di Ceglie, di Ambrogio Giacomo Manno, di Maria Antonietta Mendosa, di Fabrizio Renzi e di Dario Sacchi hanno messo adeguatamente in rilievo come la mia rivendicazione della metafisica non sia una “conseguenza” della filosofia del senso comune ma sia proprio la stessa filosofia del senso comune, che a sua volta è espressione del realismo come metodo della filosofia.
Contro il “pensiero debole”
È particolarmente importante, a questo proposito, rilevare come questo tipo di argomentazione sia l’unico che possa aiutare i teologi a smascherare le false ragioni con le quali gli esponenti del “pensiero post-metafisico” o del “pensiero debole” li hanno convinti a fare teologia sbarazzandosi della filosofia intesa in senso forte, ossia come scienza e come sapienza. Si rileggano le parole con le quali Gianni Vattimo presenta la sua teoria epistemica, sostanziata di polemica anti-metafisica: «Si tratta di aprirsi a una concezione non metafisica della verità, che la interpreti […] a partire dall’esperienza dell’arte, della retorica. […] L’esperienza post-moderna, postmetafisica della verità è un’esperienza estetica e retorica. […] La nozione di verità non sussiste più, e il fondamento non funziona più, dato che non vi è alcun fondamento per credere al fondamento, e cioè al fatto che il pensiero debba “fondare”» (La fine della modernità, Garzanti, Milano 19993, pp. 20-21; 175.).
La filosofia del senso comune fa comprendere che la logica delle cose (ivi compreso il pensiero) è proprio il contrario: non è il pensiero che debba “fondare” alcunché, perché la funzione naturale del pensiero è di riconoscere il fondamento che c’è. Il pensiero post-metafisico polemizza con il pensiero idealistico e non si accorge che le sue critiche non mettono assolutamente in discussione il pensiero metafisico vero e proprio, perché questo è caratterizzato dall’accettazione del senso comune, il che equivale a rinunciare alla pretesa di costruire l’edificio filosofico con un fondamento “posto” dalla filosofia stessa, che si vorrebbe autosufficiente, priva di presupposti.
Bibliografia
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Antonio Livi