Giovedì 21 Novembre 2024

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Apologetica: un’arte da praticare senza timori né complessi

di Guido Vignelli Per molto tempo, anche in ambienti ecclesiali, l’apologetica è stata considerata come se fosse una scandalosa parolaccia, tanto da essere stata cancellata dai testi di teologia; oggi è stata parzialmente riabilitata dalla drammatica necessità di difendere la Fede sempre più attaccata e derisa dai suoi nemici. Tuttavia, lo “spirito del mondo” continua ad alimentare nell’opinione pubblica una sorda avversione per l’apologetica cristiana. Molti cattolici temono ch’essa faccia scivolare la loro “testimonianza” di Fede in quel “proselitismo” oggi ritenuto un peccato più grave della miscredenza e che non ammette misericordia. Essi pertanto si limitano a proporre un timido “annuncio” fideistico che “accompagna” il cammino spirituale degli uomini ma rinunciando a orientarli in una direzione e a difendere adeguatamente l’onore di Dio e della Chiesa. Ovviamente, questa grave omissione è fra le cause principali dello scarso successo che oggi constatiamo nella catechesi e nella missione ecclesiali. Risulta quindi importante dissipare almeno qualcuno degli equivoci che tutt’oggi impediscono che la vera evangelizzazione sia resa efficace da un’apologetica adeguata, franca e sicura, ossia senza timori né complessi. 1. Una catechesi militante Il termine apologetica deriva dal greco apologhetiké (sottintendendo epistème, scienza) e indica la dimostrazione razionale della credibilità della Fede cristiana. Essa proviene dal noto ammonimento di san Pietro: «siate sempre pronti a rispondere (pros apologhìan) a coloro che vi chiedono le ragioni della vostra speranza» (1Pt. 3,15) e quindi dall’esortazione di san Paolo a realizzare un «culto razionale» (logikè latrèia) che sia in accordo non solo col Verbo eterno ma anche con la retta ragione umana che ne partecipa (Rm 12,1). Dunque l’apologetica è una scienza teologica, che però si concretizza in un’arte apostolica perché, come si vedrà, deve convincere non solo gl’intelletti ma anche gli uomini tutti interi. Dalla semplice esposizione della Fede, l’apologetica se ne distingue per il suo carattere conquistatore e missionario, poiché si rivolge soprattutto a “quelli di fuori”: essa quindi è un aspetto tipico della Chiesa detta appunto “militante”. Difatti, contrariamente a quanto pensano molti cristiani, Dio, Gesù Cristo e la Chiesa hanno ancor oggi nemici oggettivi (siano essi occulti o palesi, impliciti o espliciti, consapevoli o inconsapevoli) che cercano d’impedire la diffusione della Verità cristiana negandola, calunniandola e ridicolizzandola in tutti i modi, anche sleali. Pertanto la catechesi dev’essere sempre preparata, affiancata e sostenuta dall’apologetica, la quale mira non tanto ad annunciare la verità cattolica quanto a difenderla e diffonderla. L’apologetica svolge i due ruoli tipici della militanza alimentati della virtù della fortezza: quello difensivo e quello offensivo, riassunti nel noto motto sustine et aggredi. Essa ha un ruolo primariamente difensivo: ossia chiarisce e precisa le verità di Fede non in astratto ma in concreto, difendendola dai suoi nemici. Può farlo in vari modi, ad esempio rimuovendo gli ostacoli che impediscono la comprensione e l’accettazione della Verità: si tratta di equivoci, fraintendimenti, pretesti, pregiudizi, calunnie, avversioni, ostilità, che spesso non sono sinceri ma sorgono dall’avversione e dalla opposizione fatta dai vizî alle verità, specie a quelle morali. L’apologetica però ha anche un ruolo offensivo: ossia aggredisce gli errori confutandone i sofismi, dimostrandone la contraddittorietà, smascherandone le vere motivazioni e denunciandone le gravi conseguenze. Questa offensiva è necessaria in quanto, come in ogni milizia, anche nell’apologetica non basta che ci sia una retroguardia che difenda la Fede, ma ci vuole anche un’avanguardia che attacchi gli errori. Il fatto che alcuni apologisti abbiano preferito annunciare la verità senz’attaccarne i nemici, non toglie l’importanza dell’aspetto offensivo; del resto, come dice il proverbio, spesso “la miglior difesa è l’attacco”. L’apologetica può perfino svolgere un ruolo preventivo: ossia mira a prevenire alcuni errori che potrebbero diffondersi, per batterli in breccia fornendone in anticipo la confutazione e l’antidoto. In tal caso, però, l’apologista deve stare attento a evitare il pericolo di suscitare dubbi su questioni che non sono in causa, o che lo sono solo in un ambiente molto ristretto e ininfluente; altrimenti egli rischia d’indurre l’interlocutore in tentazioni che non subisce – e che forse non avrebbe mai subìto – senza riuscire a preservarlo. 2. Annuncio e polemica Alcuni pretendono che l’apologetica, specialmente nel suo ruolo offensivo, sia inutile o addirittura dannosa al successo della missione e alla salvezza delle anime, in quanto rischierebbe di suscitare aggressività e intolleranza in chi la fa e timore ed avversione in chi la subisce. Secondo questa tesi, quindi, il cristiano dovrebbe evitare tali pericoli attenendosi alla sola presentazione propositiva della dottrina cristiana (il cosiddetto annuncio), o meglio ancora alla sola esposizione fattuale della propria esperienza di fede (la cosiddetta testimonianza). Questa posizione rivela una mentalità pacifista e una tendenza psicologica simile a quella del quietismo; pertanto essa contrasta non solo col carattere militante della Santa Chiesa ma anche col comando evangelico di conquistare le anime – anzi, “le genti” – mediante il proselitismo missionario. Anche in questo campo, il pacifismo è il vizio tipico dei timidi, dei vili e dei renitenti destinati alla sconfitta e alla resa al nemico. In realtà, la semplice presentazione propositiva della dottrina cristiana non basta ad assicurare una evangelizzazione solida, stabile ed efficace. Il Vangelo difatti non è solo Parola da ricevere ma anche e soprattutto Spirito da assimilare e Legge da praticare. Ma questo viene impedito dal Peccato Originale e dalle sue conseguenze individuali e sociali, specie nell’attuale situazione d’indifferenza o di ribellione a Dio, che ha spinto all’apostasia molte nazioni un tempo cristiane. Pertanto, non basta annunciare la Verità ma bisogna anche difenderla dai nemici e quindi impedire a costoro di nuocerle. La Chiesa stessa, come Magistra Verbi, non può limitarsi ad esporre, proporre ed esortare al vero, ma deve anche insegnare, ammonire, minacciare, condannare e talvolta perfino punire i nemici della Fede, esigendo che l’uomo accetti (liberamente) la Verità e che si adegui (sinceramente) alla Giustizia divina. Del resto, Dio stesso condiziona la conversione e la salvezza all’integrale annuncio e difesa della Verità, come ammonivano i Padri della Chiesa. Il polemista deve mirare a convincere l’avversario del suo errore per convertirlo alla verità e farlo passare dalla parte giusta; ma se questo non è possibile, egli deve almeno “disarmarlo”, ossia confonderlo e smascherarlo, in modo che le sue possibili vittime si rendano conto della sua malizia e si sottraggano alla sua influenza. A questo scopo, il cristiano può e deve usare tutti mezzi e le tecniche della comunicazione persuasiva, compresa la (sana) retorica e dialettica, senza escludere la contraddizione e l’accusa. Fra questi mezzi, i Padri della Chiesa includono anche l’umiliare, il deridere e dissolvere tutto quanto viene pretestuosamente messo al servizio dell’errore: motivazioni, sentimenti, esempi, scandali. Insomma, «ogni mezzo (onesto) va usato per fare la gloria di Dio», come sosteneva sant’Ignazio di Loyola. Le numerose conversioni ottenute dai santi sono dovute anche alla loro capacità di convincere polemizzando. 3. Segno di contraddizione Per convertire gli uomini, l’apologista deve coinvolgere e convincere l’anima per intero, in tutte le sue facoltà: dunque non solo l’intelletto ma anche la volontà e la sensibilità. Pertanto, non basta che l’apologetica sia razionalmente solida e inoppugnabile, perché alle argomentazioni razionali si potrà sempre opporre obiezioni psicologiche, emotive e passionali, anche patologiche, spesso suscitate da una mentalità erronea alimentata da una vita immorale. L’apologista deve quindi rivolgersi anche alla volontà e alla sensibilità dell’uomo, in modo da far sì che le sue passioni cessino di ostacolare la conversione e anzi la favoriscano, ad esempio evidenziando gli aspetti amabili e gradevoli della fede, come quelli etici ed estetici. Nel preparare e facilitare l’atto di fede, i fattori di tipo sensibile ed emotivo sono spesso molto più efficaci di quelli mentali e razionali; l’importante è che i primi vengano messi al servizio dei secondi, non al rovescio, come pretende il modernismo quando considera la dottrina come un ostacolo all’efficacia della pastorale. Ma, proprio perché deve rivolgersi all’anima umana tutta intera, l’apologetica deve suscitare non solo simpatia, amore e zelo, ma anche meraviglia, timore e perfino avversione: meraviglia per le imprese di Dio, timore per i Suoi giudizi, avversione per i Suoi nemici. L’apologeta quindi deve non solo attirare, affascinare, lusingare, unire, ma anche scuotere, ammonire, minacciare, separare, distruggere; se deve unire nella Verità, deve anche dividere dall’errore, deve insomma essere “segno di contraddizione”: proprio come fece Gesù Cristo, il quale per giunta non si preoccupava affatto delle opposizioni che suscitava, anzi se ne gloriava. L’importante è che quest’azione divisiva e distruttiva sia al servizio di quella unitiva e costruttiva, non al rovescio, come fanno liberalismo e socialismo. In questa prospettiva e in questi limiti, il cristiano non può rinunciare alla polemica, nei suoi ruoli difensivo e offensivo. L’apologeta può e deve confutare gli errori e combattere i vizî. Secondo i Padri della Chiesa, come papa san Gregorio Magno, così facendo egli offre a Dio il dono regale della mirra, che esprime simbolicamente la disposizione a sacrificare la propria tranquillità e fama alle esigenze della lotta per la causa evangelica. Tuttavia, come avverte san Paolo, bisogna polemizzare con misura e con prudenza, ossia opportune et importune, ma non inopportune; la polemica deve restare uno strumento posto al servizio della Fede, per cui non deve suscitare una incurabile avversione alla Verità o una invincibile opposizione alla Giustizia; a maggior ragione, la polemica non deve diventare un pretesto per esaltare la propria personalità o per umiliare quella altrui. Comunque sia, questo pericolo è molto più raro di quanto si crede, dato il relativismo, permissivismo e pacifismo oggi dominanti anche in campo ecclesiale. La polemica cristiana non è un’accademia sofistica né una gara sportiva, ma una esercitazione militare; l’importante quindi non è partecipare ma vincere, anche se la vittoria resta un dono che bisogna sperare ma non pretendere da Dio. 4. L’apologeta e l’errante Abbiamo detto che l’apologetica deve difendere la Fede dall’errore. Tuttavia l’errore non esiste in astratto ma solo in concreto, ossia in quanto professato e diffuso dagli erranti; l’apologetica quindi deve affrontare non solo parole, scritti, immagini e gesti erronei, ma anche le persone che li usano per diffondere quegli errori. I grandi apologisti cristiani hanno predicato e scritto non tanto contro astratti errori, quanto contro i concreti erranti, spesso intitolando i loro scritti e discorsi usando la parola adversus (“contro”) seguìta dal nome del responsabile. Questo punto, tanto importante quanto delicato, merita di essere ben chiarito a scanso di pericolosi equivoci. L’apologista deve fare tutto ciò che è lecito per impedire che l’errore seduca gl’ingenui e gl’ignoranti grazie all’abilità o al potere o al prestigio dei suoi propagandisti; a questo scopo, nella sua Filotea, il mite san Francesco di Sales esortava i cristiani a smascherare e ridicolizzare le false pretese e la falsa fama di coloro che si fanno strumenti dell’errore. Al riguardo, non vale obiettare che l’apologista ha comunque il dovere di salvaguardare la dignità umana dell’errante. Infatti costui dev’essere sempre rispettato come persona, ossia nella sua astratta qualità di creatura umana, ma non può mai essere rispettato come individuo, ossia nella sua concreta attività immorale di propagandista del male; se un individuo si pone al servizio dell’errore e del vizio, causando grave danno alle anime, egli concretamente perde la propria astratta dignità morale e il diritto alla onorabilità e al prestigio che ha prostituito in favore del male. Ciò è tanto è vero, che la giustizia divina condanna all’inferno coloro che muoiono nella impenitenza finale e la giustizia umana condanna alla prigione o alla morte coloro che danneggiano gravemente il bene comune; e lo fanno perché questi colpevoli, nonostante mantengano l’imperdibile natura umana, ne hanno perso la dignità e i conseguenti diritti alla incolumità. «Ho odiato l’errore e ho amato l’errante», disse giustamente sant’Agostino; ma con ciò intendeva dire che l’errante va amato non nel suo errare, bensì nella sua condizione di creatura umana che, sebbene sia moralmente corrotta dall’errore e dal vizio, resta pur sempre capace di guarigione, ossia di conversione. Comunque sia, quando l’errante, nonostante i chiarimenti ricevuti, si ostina a diffondere pubblicamente l’errore, identificandosi oggettivamente con esso e «servendosi della propria libertà come pretesto per fare il male» (1Pt 2,16), allora egli non ha più la scusa di essere “in buona fede” perché ignorante o ingannato e perde quei diritti alla onorabilità e alla libertà che ha così malamente usato. Pertanto, l’apologeta deve prima ammonirlo, poi rimproverarlo, infine denunciarlo alle autorità spirituali della Chiesa, come esigeva san Paolo, oppure a quelle temporali, affinché esse gl’impediscano di continuare a nuocere. Se l’apologista, pur avendone autorità e potere, trascura di ammonire l’errante, egli se ne rende responsabile davanti a Dio, il quale gliene chiederà conto nel giorno del Giudizio. Chi pensa che questa reazione non sia conforme al Vangelo, si ricordi che il divino Redentore stesso non si limitò ad annunciare la verità esortando i tiepidi, ma osò combattere il male ammonendo gl’indecisi, smascherando gl’ipocriti, accusando i peccatori, attaccando i nemici; è anche per questo che la sua divina testimonianza lo ha portato alla morte sulla Croce. Così deve agire anche l’apologista cristiano; l’importante è ch’egli polemizzi sinceramente e lealmente, non per gusto della discussione, tantomeno per odio o per interesse personale, ma solo per amore della Verità e per carità verso l’errante. Non scandalizziamoci, dunque, se talvolta un apologista polemizza contro un pubblico errante o peccatore: ciò è richiesto dalla sequela Christi e dalla parresìa (franchezza) evangelica, è un compito della Chiesa militante, è imposto dalla normale battaglia della Fede, necessario alla gloria di Dio e alla salvezza delle anime. Se la Verità è cibo dell’anima e chi lo dispensa è oggettivamente lodevole, indipendentemente da intenzioni soggettive difficilmente valutabili, all’opposto l’errore è veleno dell’anima e chi lo diffonde è oggettivamente criticabile, indipendentemente da intenzioni soggettive difficilmente valutabili. Il grande apologeta Joseph de Maistre diceva che «l’errore è come una moneta falsa coniata da pochi criminali consapevoli e colpevoli, poi diffusa da molti ignari e forse incolpevoli»; ma ciò non toglie che lo spaccio di monete false (o di farmaci velenosi) resta un crimine e che l’autorità (anche religiosa) deve individuarne il colpevole, tentare di dissuaderlo e, se ciò non basta, impedirgli di perpetrare quel crimine. 5. Autenticità e buona fede Spesso l’errore si presenta sotto una falsa luce, si ammanta di false apparenze e si pone al riparo di un falso prestigio, allo scopo d’ingannare e sedurre ingenui e sprovveduti; pertanto l’apologista dev’essere accorto e diffidente, per evitare insidie e pericoli. Un primo pericolo consiste nel dare per scontato che l’errore sia “autentico”, limitandosi a considerarlo quale si presenta o pretende di valere, accettandolo a scatola chiusa, rischiando quindi di non coglierne la gravità e la malizia oggettive. Pertanto, prima di confutare l’errore, spesso l’apologeta deve smascherarlo, ossia deve svelarne e denunciarne la vera natura, il vero fine, i veri metodi e agenti; infatti esso va sempre valutato e confutato non come si vorrebbe che fosse, magari adattandolo alle proprie esigenze apostoliche, bensì così com’è oggettivamente, individuandone i reali pericoli senz’attenuarlo ma soprattutto senz’attenuarli. Un secondo pericolo consiste nell’illudersi che l’errante sia sempre “in buona fede”, ossia sincero e leale, come se questa convinzione fosse una condizione irrinunciabile per rispettare l’avversario e per “dialogare” con lui allo scopo di convertirlo. Ovviamente, di norma bisogna presumere la “buona fede” dell’avversario; ma quando se ne ha evidente prova del contrario (il che è molto più frequente di quanto oggi si crede!), allora la sua malafede va constatata e smascherata. In tal caso, la prudenza obbliga l’apologista a cambiare l’impostazione del “dialogo” e talvolta a sospenderlo o perfino a rifiutarlo, non solo per evitare quelle vane discussioni che favoriscono dubbi e cedimenti pericolosi per la fede, ma anche per sciogliere l’equivoco e sfuggire alla trappola, smascherando l’avversario ed impedendo che il suo inganno possa sedurre e traviare coloro che partecipano alla discussione. Infatti la storia recente dimostra che molti apologisti ingenui, partiti col desiderio di convertire erranti più abili di loro, essendo stati ingannati dai loro sofismi e sedotti delle loro malie, hanno finito col passare nel campo avverso e diventare propagandisti di quell’errore che avrebbero dovuto combattere; casi rimasti famosi sono quelli dei “preti operai” e dei “teologi della liberazione” passati alla militanza comunista. «Chi ama il pericolo morirà in esso», ammonisce la Sacra Scrittura. Comunque sia, anche quando si suppone che l’errante sia “in buona fede”, bisogna sempre contrastarlo, se non altro per disingannarlo prima ch’egli, ostinandosi nell’errore, seduca altri, se ne renda colpevole e muoia nella impenitenza finale.