Carneade è un sconosciuto-famoso filosofo del III-II secolo a.C; sconosciuto perché sconosciuto (a stento è citato in qualche manuale di filosofia), famoso perché presente niente di meno che ne I Promessi Sposi: “Carneade, chi è costui?” ruminava il vecchio don Abbondio. Carneade diceva una grande sciocchezza e cioè che non si può conoscere la verità, ma, insieme a questa sciocchezza, diceva anche una cosa saggia ammettendo l’assurdità di ciò che affermava: se dico che la verità non si può conoscere, ammetto che posso conoscere comunque una verità, ovvero che la verità non si può conoscere. Dargli torto non si può; ovviamente non nel merito che non esiste la verità, bensì in quello che non si può affermare che non esiste la verità pena una palese contraddizione.
Quando si parla della verità vien del tutto automatico pensare non solo alla sua esistenza e alla sua oggettività (la verità è verità per tutti, altrimenti non sarebbe più verità), ma anche alla sua eternità. E’ vero ciò che è oltre il tempo, non ciò che lo subisce; la verità giudica la storia e non può essere sottomessa ad essa; non può essere vero ciò che muta continuamente o si volge da una parte all’altra come una bandiera a secondo della direzione del vento.
Il Cattolicesimo contemporaneo ha un tantinello (mi si permetta questa espressione delle mie parti) dimenticato laverità secondo cui con la verità non si scherza; molti teologi contemporanei con la verità scherzano eccome. Si va da quelli che pontificano dalle università teologiche dicendo con terminologia tecnica che la verità, pur non avendo una ontologia immanente scoprirebbe la coscienza di sé nel suo inverarsi nella storia, per cui se è vero che la verità non s’identifica con la storia è pur vero che tutto sommato si modifica con la storia stessa; fino ad arrivare ai teologi dei talk-show televisivi o diocesani-parrocchiali (modello Enzo Bianchi) che con linguaggio semplice e accattivante diconopapale-papale (meglio: teologale-teologale) che ciò che era vero ieri non è più vero oggi. Affermazione che potrebbe essere demolita già da un bambino: ma se tutto cambia, se non è più vero ciò che si diceva ieri, chi mi dice che ciò sto ascoltando oggi sia veramente-vero?
Da qui la spocchia che alberga negli ambienti dell’intellettualismo cattolico: la devozione popolare … sciocchezze! i rosari … sciocchezze! la pratica dei primi venerdì del mese … sciocchezze! la devozione alla medaglia miracolosa …sciocchezze! La Madonna che sarebbe apparsa in quel tempo e in quel luogo … sciocchezza anche questa! Tutte sciocchezze, tranne ovviamente i giudizi appena espressi.
E’ un problema di Fede, né più né meno. E’ inutile che ci prendiamo in giro, la questione è solamente di Fede, niente altro che di Fede. La Fede è luce che illumina tutto, che illumina la vita dell’uomo, che illumina la storia, tutto, nulla escluso; è il sale che dà sapore; e, se manca, tutto è insipido, nulla ha valore; possiamo acquistare gli ingredienti migliori e di più alta qualità, ma se non saliamo non ce ne facciamo nulla di ciò che abbiamo acquistato forse anche a caro prezzo. Senza la Fede nulla ha gusto, senza la luce della Fede tutto è oscurità.
Ma la luce della Fede, se è davvero della Fede, non può spegnersi; pensare che si tratti di una luce a fase alterne, a intermittenza, tipo quella della freccia dell’auto, è un contro-senso, perché la radice della Fede è Dio, e Dio è luce perenne.
Nel racconto La luce che non si spegne (inserito nella raccolta L’anno di don Camillo) il figlio del Lungo (uno della banda del comunista Peppone) si costruisce un presepe clandestino in soffitta dopo aver ricevuto dal papà la proibizione di costruirne uno legittimo. Viene scoperto dal padre, da Peppone e dal Bigio. Così termina il racconto che invito a leggere per intero in questi giorni di festa:
Arrivati in vista della Casa del Popolo, Peppone esclamò:
- Cosa succede lassù?
Tutti levarono gli occhi e videro che una delle finestrelle del solaio era illuminata. Poi la luce si spense per riaccendersi di lì a poco. E la storia si ripeté per parecchie volte.
Il Lungo si preoccupò:
- La chiave del solaio è nascosta in un posto che conosco soltanto io. E poi nessuno di casa mia è mai salito lassù.
Lasciarono il Bigio di guardia al pianterreno e salirono in punta di piedi. La porta del solaio era socchiusa e, ogni tanto, la fessura si illuminava fiocamente.
C’era qualcuno evidentemente e cercava chi sai mai cosa.
Peppone, il Lungo e lo Smilzo rimasero in agguato trattenendo il respiro: poi, quando al vicino campanile incominciarono a battere i primi tocchi della mezzanotte, si infilarono dentro la porta del solaio e si addossarono al muro.
Al dodicesimo rintocco, la luce si accese e non si spense più.
Una piccola luce, una lampadina a pila che illuminava l’interno di una minuscola capanna sistemata in una cassa.
E in piedi davanti alla cassa, stava il ragazzino del Lungo.
Rimase lì a guardare per una decina di minuti e ci sarebbe rimasto ancora se il Bigio non avesse fatto un po’ di fracasso giù al pianterreno dove era rimasto di guardia. Allora il ragazzino scappò via, passando davanti, senza vederli, a Peppone agli altri due nascosti nell’ombra a lato della porta.
Scomparso il ragazzino, i tre uomini intabarrati uscirono dall’ombra e andarono a fermarsi davanti alla capannuccia sistemata sulla cassa.
Pensa se questo lo venisse a sapere don Camillo – borbottò Peppone – il presepe clandestino, i cristiani riportati al periodo delle catacombe … Figuriamoci che pacchia sarebbe.
Il Lungo era cupo.
- da piccolino gli hanno riempito il cervello di queste favole- sussurrò- Non è possibile cambiare una mentalità da un momento all’altro … Però vorrei sapere chi gli ha dato quella roba.
Peppone si chinò a guardare il presepino:
-Nessuno –spiegò- sono statuine di terra cruda pitturata. Se le è fatte da solo. E sono anche belle parecchio. Mica stupido il ragazzino.
Il Lungo rimirò in silenzio le statuette del Presepino, poi con una sberla le spazzò via mandandole a sbriciolarsi contro il muro.
Ma la lampadina rimase accesa nella capannuccia deserta e devastata.
La gente usciva dalla chiesa e riempiva di allegre voci la piazza: Peppone si riscosse dallo stupore nel quale il gesto del Lungo l’aveva fatto piombare e raggiunse in fretta la porta, seguito dallo Smilzo, mentre il Lungo rimaneva là a guardare con occhi attoniti quella luce che non si spegneva.
La luce non si spense nemmeno dopo l’infuriata del Lungo. Quella sberla è il segno della stupidità ingenua di chi crede di poter spazzar via, con un colpo di mano, l’evidenza dell’immortalità del vero. Dietro quella sberla c’è l’ideologia, la cui forza è solo nell’agire, anzi nella pretesa che l’azione possa negare la contemplazione, l’osservazione, il riconoscimento di ciò che è. Il Lungo prima rimane attonito, poi reagisce con una sberla; prima osserva, riconosce, prende atto… poi cancella istericamente cercando di convincersi che non può essere così.
La capannuccia era stata devastata, ma la piccola lampadina era rimasta accesa. Karl Rahner, mostro sacro della teologia contemporanea, scriveva: «Noi viviamo nella storia e solamente nel suo progredire possediamo l’eterna verità di Dio che è la nostra salvezza. In questa storia essa è sempre la stessa ma pur ha avuto e ha ancora una storia. Tale univocità esiste sempre, ma non permette mai che la separiamo dalle sue forme storiche per poter così, almeno nella nostra conoscenza della verità, uscire dal moto continuo e dal flusso storico, per mettere piede sulla ferma riva dell’eternità. Nella storia possediamo quel che di eterno questa verità presenta, ma appunto la possediamo soltanto se ci affidiamo al suo continuo progredire» (Sulla storicità della Teologia, in Nuovi Saggi III, Paoline, Roma 1969, pp.109-110). Dunque, secondo Rahner, dovremmo affidarci al progredire della storia affinché si possa pienamente possedere la verità. E’ come se Rahner avesse detto: bene la sberla del Lungo, ci voleva proprio, ha certamente abbellito il presepe!
Eppure il presepe si è rotto, tutto è stato devastato, le statuine sono andate in frantumi… c’è però la piccola lampadina accesa che è come se dicesse a Rahner: ma ci sei o ci fai?
Corrado Gnerre