Tra i tratti distintivi della post-modernità vi è non solo il relativismo(che ha come logico e coerente epigono il nichilismo), ma anche la distruzione dell’uomo. E’ evidente che quando si parla di “distruzione dell’uomo” s’intende principalmente la distruzione di ciò che si manifesta come originalità umana: ovvero l’attività intellettiva (intelligenza) e quella volitiva (la libertà).
Relativamente all’attività intellettiva, il pensiero postmoderno non è riuscito a negarne l’esistenza. Ciò che però ha fatto è la negazione di tale attività come elemento discriminante il piano della valutazione della dignità della vita. Più semplicemente: la mentalità contemporanea tende a ritenere che ciò che conferisce valore alla vita non sia il piano intellettivo ma solo quello biologico. Un filosofo contemporaneo, antispecista, come l’australiano Peter Singer di fatto afferma che una scimmia sana avrebbe più diritto alla vita di un neonato malato. Si tratta di un’affermazione perfettamente coerente con un’impostazione filosofica secondo cui la centralità non starebbe nell’attività intellettiva (e quindi nell’esistenza di un’anima intellettiva), bensì nella vita biologica in quanto tale. Ora, se le cose stessero in questo modo, è evidente che una vita sana (indipendentemente se non intelligente come quella di una scimmia o potenzialmente intelligente come quella di un bambino appena nato) dovrebbe essere maggiormente presa in considerazione rispetto a quella che meno sana.
Ma –dicevamo- la post-modernità attacca anche la discriminante volitiva, ovvero la libertà. Lo sviluppo – e soprattutto lo pseudo-successo - delle cosiddette neuroscienze tende ad affermare che ciò che l’uomo può pensare, può scegliere, può produrre, insomma tutte le sue dinamiche volitive altro non sarebbero che esiti di meccanismi neuronali.
Nel movimento del ’68, oltre ad una rivoluzione sessuale emusicale, se ne accompagnò anche una cosiddetta psichedelica. Si trattava di propagandare alcune sostanze allucinogene alfine di “allargare la coscienza”, per permettere all’uomo di sostanziare sul piano dell’immaginazione il desiderio di una completa autosufficienza. Un teorico di tale “rivoluzione”, Richard Neville, arrivò a definire l’LSD come sostanza capace di far “sgusciare l’uomo dalla camicia di forza della logica aristotelica”: l’uomo, insomma, doveva liberarsi da quella logica realista (fondata sul principio di non-contraddizione) che non gli permetteva di realizzare l’utopia di essere libero da qualsiasi vincolo.
Quella rivoluzione psichedelica non si è potuta realizzare completamente (il che ovviamente non significa che non abbia concretamente causato danni enormi sul piano sociale e generazionale), ma a quella ne è succeduta un’altra. Riprendendo la prospettiva positivista e materialista (tipica della seconda metà del XIX secolo), abbandonando la dimensione irrazionalista e più specificamente utopica con cui quella dimensione si era incanalata nel XX secolo, soprattutto nella seconda parte del XX secolo, larivoluzione psichedelica è divenuta in un certo qual modo rivoluzione chimica. L’uomo altro non sarebbe che i suoi meccanismi biologici, nel caso specifico: i suoi meccanismi cerebrali.
Attenzione: non si tratta di un passo indietro rispetto all’originaria rivoluzione psichedelica (quella sessantottina per intenderci), bensì potrebbe addirittura essere letta come un passo ulteriore. Per lo meno come un passo funzionale ad un’altra rivoluzione: quella tecnocratica.
La tecnocrazia è il potere della tecnica. Benedetto XVI nella Caritas in veritate al n.70 così la definisce:“la tecnica divenuta essa stessa un potere ideologico, che (espone) l’umanità al rischio di trovarsi rinchiusa dentro un ‘a priori’ dal quale non potrebbe uscire per incontrare l’essere e la verità.” La tecnocrazia ha dunque bisogno non dell’uomo davvero (sottolineiamo: “davvero”) pensante. Ovviamente, in questo caso non ci riferiamo alla possibilità di pensare in quanto possibilità di pensare, ma al pensiero come scelta libera, al pensiero come capacità di orientare la propria vita, al pensiero come “giudizio”. Dicevamo, la tecnocrazia non vuole l’uomo pensante, ma l’uomo “macchina” manipolabile e strumentalizzabile, incapace di giudicare.
Ecco la grande questione: il pensiero come “giudizio”. Quando nel Genesi è scritto che Dio permette all’uomo, in quanto creato a sua “immagine e somiglianza”, di usare degli uccelli del cielo e dei pesci del mare, autorizza l’uomo ad orientare a sé il reale. Non a negarlo (idealismo) né tantomeno a distruggerlo (relativismo nichilista), ma senz’altro a orientarlo, cioè a “intellegerlo”, a penetrarlo per scoprire in esso un senso. C’è, infatti, qualcosa che va oltre il reale per cui il reale è stato fatto ed esiste.
Su questo qualcosa che va oltre, il reale non si perde ma si orienta e l’uomo ha la capacità di farlo. Ma tale capacità non gli è data solamente dai meccanismi biologici che lo costituiscono, questi sono solo lo strumento perché si realizzi qualche altra cosa: la libertà dell’uomo che è il pensare, il produrre … e il giudicare. Attività libere, non vincolate da alcun determinismo.
L’arte –per esempio- è il giudicare la realtà. Proprio in questo “giudizio” sta il progresso umano. L’animale non riesce a progredire se non in piccolissime cose che non lo elevano sopra la pura istintualità. Un singolo cane può scoprire nel tempo la strada più comoda e più corta per arrivare alla ciotola del cibo, ma non va oltre. L’uomo, invece, modifica totalmente la sua vita. E la modifica perché può giudicarla. Quando Leopardi, pur nella sua negazione di ogni possibile risposta metafisica, pur nel suo sensismo, arriva a denunciare quanto l’uomo stesso abbia un costitutivo bisogno di andare oltre l’ hic et nunc (il qui e ora), smentisce tanto il suo “nichilismo” quanto il suo sensismo. Nessun animale può arrivare a costatare il paradosso di un uomo che, pur scoprendosi finito, limitato, addirittura semplice “macchina cellulare”, invochi l’infinito e l’assoluto. Platone lo dice chiaramente: l’uomo desidera l’assoluto, l’infinito, la bellezza totale … ma nulla sulla faccia della terra palesa l’infinito, l’assoluto e la bellezza completa. E allora perché l’uomo ha tali desideri? Perché li ha l’uomo e non l’animale?
Il paradosso del riduzionismo biologista sta proprio nel fatto che già negare nell’uomo la dimensione spirituale, vuol dire ammetterla. Nessun animale dice di se stesso che è solo materia. L’uomo può dirlo, e può dirlo proprio perché non è solo materia.
Quando un amico ateo chiese al celebre scienziato credente Pasteur: “Ma tu come fai a credere che nell’uomo esista un’anima immortale?” Questi rispose con grande semplicità: “E’ proprio la tua domanda che me lo dimostra.”
Corrado Gnerre