Edward Feser è uno scrittore statunitense e docente di filosofia presso il Pasadena City College. Autore di numerose
pubblicazioni di orientamento conservatore su temi attinenti alla morale, alla politica e alla religione, si distingue tra l’altro per
il suo impegno a favore della rinascita di un’apologetica cattolica radicata nella tradizione tomista.
Informazioni biografiche tratte da Internet
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CINQUE LEZIONI DA SAN GIUSTINO
(originale qui: http://www.catholicworldreport.com/2018/04/22/the-unapologetic-apologist-five-lessons-from-st-justin-martyr/)
Traduzione a cura di Stefano Dal Lago
Nel II secolo d.C. la religione cristiana si era ormai diffusa oltre l’originale contesto ebraico, in un mondo pagano che molto
spesso la fraintendeva e la odiava. La situazione era, da quel punto di vista, molto simile alla nostra. Solo peggiore,
naturalmente. Perché in quei giorni farsi cristiano voleva dire qualcosa di più che attirarsi il disprezzo degli intellettuali o
divenire oggetto di scherno da parte della sottocultura popolare. Significava esporsi al rischio di trovare la morte per mano
dello stato.
Tuttavia, nonostante la loro condizione fosse assai più precaria sul terreno sia politico che culturale, i nostri predecessori nella
fede erano molto più forti di noi moralmente e spiritualmente. Il lassismo formale e il sentimentalismo sdolcinato tipici del
cristianesimo dei nostri tempi non facevano per loro. Al contrario, la risposta alle difficoltà in cui si dibatteva la Chiesa nel II
secolo comportò le sfide più impegnative che siano mai state poste alla volontà e all’intelletto dei suoi membri. Innanzitutto,
un’aderenza rigida alla morale cristiana e all’insegnamento dei teologi, a costo della vita se necessario. In secondo luogo, la
dimostrazione razionale della superiorità dell’ortodossia cristiana rispetto agli errori degli infedeli e degli eretici.
In breve, martirio e apologetica. Quello era il loro programma e funzionò. Lentamente, ma inesorabilmente, la Chiesa
conquistò l’impero che aveva cercato di conquistarla. Soprattutto, salvò le anime dei perseguitati e dei persecutori ad un
tempo. Prima o poi questo programma sarà anche il nostro. Perché è il solo programma che funzioni e l’unico che - con
l’inflessibilità che lo contraddistingue sia sul piano pratico che teorico - possa recare testimonianza autentica della verità della
fede cattolica. Non possiamo aspettarci che il mondo accetti questa fede se non riusciamo a sostenerla con prove concrete e
non siamo disposti a vivere e a morire per lei.
San Giustino martire ha tracciato il cammino. È unanimemente considerato il primo filosofo cristiano e il primo grande
apologeta. Come rivela il suo titolo, difese la fede fino alla morte. Vissuto all’incirca tra il 100 e 165 d.C., fu temporalmente
contiguo all’età apostolica, tanto da possedere una comprensione non mediata dell’ethos e degli insegnamenti della Chiesa
delle origini. Pertanto le sue credenziali sul piano intellettuale, morale e teologico sono fuori discussione. Che cosa mai
potrebbe insegnarci sul modo in cui la Chiesa dovrebbe affrontare un mondo ostile?
Prima lezione: la fede non ammette il fideismo
Nel corso di tutta la sua Prima apologia, Giustino sottolinea il fatto che i cristiani possono e devono fornire “la più forte e vera
prova possibile” a sostegno della loro religione e che “non facciamo mere affermazioni senza essere in grado di provarle”. Il
lettore moderno potrà forse trovarlo sorprendente. Perché non è forse vero che Giustino parla anche di “professione di fede”
cristiana? E la fede non consiste proprio nel credere qualcosa in assenza di prove?
No, affatto. Secondo la tradizione teologica cattolica, la fede consiste essenzialmente nel credere qualcosa perché è stata
rivelata da Dio. E quando parliamo di “fede cattolica” o di “deposito della fede”, si intende quel corpus di dottrine morali e
teologiche divinamente rivelate che ci è stato trasmesso dal tempo degli apostoli. Ma come possiamo sapere che qualcosa è
stato davvero divinamente rivelato e non è solo un’invenzione umana? Come sappiamo che il deposito della fede viene
realmente da Dio? Per questo, la Chiesa lo ha sempre riconosciuto, abbiamo bisogno di argomentazioni razionali.
In particolare, ci servono quelli che vengono chiamati “preamboli della fede” - ragionamenti filosofici che stabiliscono
l’esistenza e la natura di Dio e la possibilità che ci sia stata una rivelazione divina confermata per mezzo di miracoli. E abbiamo
bisogno dei cosiddetti “motivi di credibilità” - argomentazioni di natura filosofica e storica che provano l’autenticità di tale
rivelazione divina in quanto associata ad eventi che non avrebbero potuto accadere senza uno speciale intervento
soprannaturale (ad esempio, la resurrezione di Cristo). Solo se queste cose possono essere accertate per via razionale e in
modo indipendente si può iniziare a parlare di fede, perché soltanto una volta che sappiamo, grazie alla ragione, che una vera
rivelazione ha avuto luogo, abbiamo qualcosa in cui credere.
Nella sua accezione corretta, dunque, la fede non è in conflitto con la ragione, ma presuppone argomentazioni razionali. E,
come mostra il caso di Giustino, questa fondamentale idea non è un ritrovato della scolastica medievale, ma può esser fatta
risalire ai primordi della storia della Chiesa.
Come Giustino stesso riporta nel suo Dialogo con Trifone, fu lo studio della filosofia neoplatonica a creare i presupposti per la
sua conversione al cristianesimo. Nello specifico, la formazione filosofica di Giustino avvenne nell’ambito della corrente che i
moderni storici della filosofia chiamano medioplatonismo, scuola che aveva incorporato nel sistema platonico elementi
aristotelici, come la celebre argomentazione a favore di un motore immobile dell’universo.
Ovviamente, Giustino e gli altri apologeti delle origini, nelle loro riflessioni su Dio e sulla sua natura, furono profondamente
influenzati anche dalla sacra scrittura e dall’enfasi data in essa a Dio come padre celeste da Cristo stesso. Tuttavia, secondo
quanto riporta W. Barnard nel suo saggio Justin Martyr: His Life and Thought (pp. 76-77):
“I primi scrittori cristiani erano specialmente interessati a Dio nella sua qualità di creatore e molto meno agli attributi della sua
paternità. Questo era assolutamente naturale a fronte dell’eclettismo tipico dell’epoca, diffuso anche a livello popolare, che
indirizzava il culto a una pluralità di divinità... Le loro idee, sebbene derivino dal retroterra biblico della Chiesa delle origini,
riflettono anche la speculazione filosofica del tempo. Così i riferimenti di Clemente di Roma a Dio ordinatore del cosmo echeggiano
credenze proprie del tardo stoicismo. Simili influssi si fanno più pronunciati negli scritti degli apologeti greci, come è logico
attendersi se si considera la loro formazione filosofica. Aristide di Atene apre la sua Apologia con una dimostrazione schematica
dell’esistenza di Dio basata sulla nota argomentazione aristotelica a partire dal moto... Questo doppio retroterra è evidente anche
negli scritti di Giustino martire... Giustino rimase un seguace di Platone anche dopo la sua conversione al cristianesimo. Mantenne
l’idea di un Dio inconoscibile e trascendente, prima causa immobile...”
Può sembrare sorprendente che un apologeta cristiano esordisca mettendo l’accento su nozioni come queste piuttosto che
sul concetto di Dio come padre, ma a pensarci bene non lo è affatto. Come nota Barnard, il contesto pagano in cui operavano i
primi apologeti rifletteva un “eclettismo” che “indirizzava il culto a una pluralità di divinità”. Di conseguenza, gran parte del
pubblico di Giustino non aveva nemmeno una comprensione corretta di che cosa Dio fosse. Non serve predicare che Dio è
padre e Gesù suo figlio a interlocutori che quasi certamente interpretano questa affermazione assimilandola a quella per cui,
ad esempio, Zeus è padre di Apollo.
Perciò, Giustino e gli altri apologeti dovettero prima di tutto dimostrare l’esistenza di Dio inteso come causa trascendente,
immutabile e incausata di tutto, ad eccezione di se stesso. Solo una volta fondata questa base concettuale risulta chiaro che
parlare di Dio come padre non significa semplicemente parlare del signore supremo di qualche nuovo pantheon. Ciò implica
un tipo particolare di ragionamento filosofico, che anche qualche esponente della filosofia pagana aveva già contribuito
notevolmente a sviluppare. Gli apologeti poterono dunque utilizzare il lavoro di questi filosofi a un duplice scopo: fare appello
alle concezioni di Platone, di Aristotele e degli stoici come parte di un comune quadro di riferimento intellettuale nell’ambito
del quale cristiani e pagani potessero comunicare; far leva sulle buone idee prodotte dalla cultura pagana per sottoporre a
critica quelle nocive, politeiste.
Ora, mentre i pagani avevano troppe divinità, il problema dell’occidente moderno è che non riconosce neppure l’unico vero
Dio. Ma, per altri versi, la nostra situazione non è dissimile da quella di Giustino. Perché, come accadeva per il pubblico di
Giustino, anche al moderno interlocutore secolarizzato occorre fornire una prova razionale dell’esistenza di Dio, prima di
potersi ragionevolmente aspettare che prenda sul serio una qualsiasi rivendicazione cristiana. Oggi, non meno che ai tempi di
Giustino, la filosofia deve stabilire i “preamboli della fede” prima che la fede possa risultare un’opzione reale.
Una volta posti tali preamboli, però, il lavoro è solo a metà, perché bisogna fornire anche i cosiddetti “motivi di credibilità”.
Giustino lo fece a modo suo, sottolineando il compimento delle profezie - in particolare, citando i diversi passi dell’antico
testamento in cui si anticipano i dettagli della vita e della morte di Gesù di Nazareth - come prova dell’autenticità della
rivelazione divina. Ciò equivale a fare appello ai miracoli e del resto niente di meno che un miracolo - il verificarsi di un
avvenimento che in linea di principio non ammette spiegazione naturale e che quindi può essere solo il prodotto di uno
speciale intervento divino - può giustificare l’affermazione che una rivelazione divina abbia effettivamente avuto luogo.
L’apologetica vecchio stile, quella che poneva l’accento sulle prove filosofiche dell’esistenza di Dio, sulle argomentazioni
storiche a favore dei miracoli, ecc., costituiva una colonna portante della teologia neoscolastica, dominatrice del pensiero
cattolico nel periodo precedente al Concilio Vaticano II. Negli ultimi decenni è stata però scartata da molti cattolici come
troppo “razionalista” e si è fatto ricorso al suo posto ai moti del cuore, al fascino della fede, ecc., per persuadere un uditorio
moderno a prendere sul serio il cattolicesimo. Com’era prevedibile, simili approcci, intellettualmente deboli e soggettivisti,
sono riusciti unicamente a rafforzare l’accusa dei neoatei, secondo cui il cristianesimo è frutto di pii desideri e manca di ogni
fondamento razionale.
Come mostra il caso di Giustino (per non parlare di Aristide, Clemente e altri padri), l’apologetica vecchio stampo dei
neoscolastici è l’approccio che si ispira davvero all’esempio della Chiesa delle origini. Il fenomeno del neoateismo e quello
dell’apostasia diffusa provano come tale approccio sia tanto indispensabile oggi quanto ai tempi di Giustino.
Seconda lezione: scopo del dialogo è la conversione
Come indicano la familiarità che mostrava e il rispetto che nutriva nei confronti dei risultati migliori della filosofia pagana,
Giustino non era un bigotto. Il Dialogo con Trifone dà conto del suo personale programma di ricerca volto ad attingere alle
diverse scuole di pensiero esistenti all’epoca e di come egli si sforzi sempre di ragionare con gli oppositori piuttosto che
ricoprirli di insulti. D’altra parte, Giustino non temeva di criticare la cultura pagana quando appariva superstiziosa e
degenerata e non si faceva scrupolo di chiamare eretico un eretico.
I cristiani del tempo di Giustino venivano accusati di ateismo perché ripudiavano le divinità delle religioni politeiste. Giustino
non gira diplomaticamente intorno alla questione. Al contrario, nella Prima apologia ammette con franchezza: “Noi
confessiamo di essere atei, finché si tratta di dei questa fatta”; condanna simili false divinità come “demoni empi e malvagi” e
ridicolizza gli idoli in quanto “privi di anima e morti”; loda pensatori come Socrate perché criticarono a loro volta le
superstizioni dei contemporanei pagani. Giustino, poi, condanna la sessualità impura e l’infanticidio che imperversavano in
alcune parti del mondo pagano e stigmatizza l’opinione che bene e male siano una mera questione di punti di vista come
“sommamente empia e malvagia”.
In questo consisteva per Giustino il “dialogo interreligioso”: riconoscere e apprezzare quanto vi è di giusto nelle confessioni
non cristiane; denunciare e condannare senza mezzi termini gli errori che contengono.
Il suo approccio all’ecumenismo fu ancor più intransigente. Nella Prima apologia, Giustino condanna aspramente gli eretici
come Simon Mago e Marcione, lamentando il fatto che da quando a questi falsi maestri è stata affibbiata l’etichetta di
“cristiani” le loro dottrine erronee hanno spesso finito per venire attribuite a tutti i cristiani indistintamente, cosa che ha
contribuito a screditare la Chiesa presso i pagani (si pensi al modo in cui oggi il fideismo e altre dottrine e tendenze che la
Chiesa cattolica ha sempre combattuto tendono ad essere attribuite indiscriminatamente al cristianesimo in quanto tale dai
neoatei e dagli altri suoi avversari).
L’alternanza fra discussione posata e razionale da un lato e critica aperta dall’altro potrà apparire contraddittoria a qualche
lettore moderno, ma in realtà è perfettamente coerente. A Giustino interessa arrivare alla verità, non conversare amabilmente.
Proprio per questo, mentre loda i pagani quando giungono a qualche conclusione corretta, li critica quando cadono
nell’errore. E giacché è convinto che il cristianesimo sia vero, ma anche dimostrabile razionalmente, si prefigge di persuadere
i pagani a convertirsi e gli eretici a cessare di distorcere il messaggio cristiano.
Oggidì, il termine “dialogo” è diventato una sorta di parola d’ordine presso chi si propone di evitare il proselitismo o di
cancellare le condanne degli errori dottrinali. Costoro non riverranno alcunché in Giustino o negli altri padri a giustificazione
di un simile atteggiamento. Oggigiorno, quando un cristiano tenta di fare “apologia”, di solito parla male della Chiesa del
passato e dei suoi presunti errori. L’apologetica di Giustino mirava invece a dimostrare che la Chiesa era nel giusto.
Terza lezione: salvati o dannati
La convinzione che il cristianesimo fosse vero non era l’unico motivo per cui Giustino era tanto ansioso di convertire i non
cristiani, sebbene ovviamente avesse la sua importanza. Lo scopo principale era quello di salvare le loro anime. Più e più volte
nella Prima apologia Giustino avverte i suoi lettori che se non si pentono dei loro peccati vanno incontro alla dannazione.
Parla di “castigo eterno”, “castigo per mezzo di un fuoco inestinguibile” e del destino del “malvagio, dotato in eterno di
sensibilità fisica, gettato nel fuoco inestinguibile coi diavoli malvagi”.
Ancora una volta, Giustino si appoggia in parte agli stessi autori pagani - in questo caso, Pitagora, Platone e affini - che
avevano prodotto argomentazioni filosofiche a favore della sopravvivenza dell’anima dopo la morte del corpo e dell’esistenza
di una ricompensa o punizione ultraterrena. Ma ha in mente anche l’insegnamento di Cristo, che mette inequivocabilmente in
guardia contro la dannazione eterna. E, data la sua vicinanza al tempo degli apostoli, non vi può essere dubbio alcuno che, una
volta di più, Giustino stia semplicemente reiterando l’insegnamento comune della Chiesa delle origini.
Anche su questo aspetto i cristiani moderni si sono allontanati assai dall’esempio dei padri come Giustino. Tendono al
contrario a sostenere che tutti saranno salvati, o quantomeno ad esprimersi come se fosse lecito coltivare la ragionevole
speranza che tutti saranno salvati. Giustino, come la Chiesa delle origini nella sua generalità che, di nuovo, era assai più
prossima nel tempo a Cristo e agli apostoli e deteneva quindi una conoscenza molto più diretta di ciò che essi avevano
davvero insegnato - non scorgeva evidentemente base alcuna per un simile ottimismo.
Quarta lezione: quel che ci uccide ci rende più forti
Con una posta tanto alta in gioco, non c’è da sorprendersi che Giustino e molti altri fra i primi cristiani fossero disposti a
subire il martirio piuttosto che abiurare alla loro fede. Scrive Giustino nella Prima apologia:
“Poiché se ricercassimo un regno umano, dovremmo anche rinnegare il nostro Cristo, così da non rischiare di essere uccisi... Ma dal
momento che i nostri pensieri non sono fissi alla realtà presente, non ci preoccupa quando gli uomini ce ne vogliono separare.”
Nella Seconda apologia, Giustino spiega che la fermezza cristiana persino di fronte alla morte ha contribuito ad avvicinarlo
alla fede quando ancora era pagano:
“Giacché io stesso, quando ancora mi beavo delle dottrine platoniche e udivo calunniare i cristiani e li vedevo impavidi di fronte alla
morte e a tutte le altre prove normalmente annoverate tra le più spaventose, sentivo che era impossibile che vivessero nella
malvagità e nel piacere,”
Convivere col rischio quotidiano di una morte violenta rendeva i primi cristiani seri. Se si è disposti financo a farsi massacrare
per amore di Cristo, consapevoli del fatto che si tratta di un’evenienza reale, allora seguire i suoi precetti è relativamente
facile. La risoluzione più ardua è stata già adottata. Le tentazioni quotidiane della carne e la prospettiva di essere fatti oggetto
di scherno da parte della cultura dominante appaiono cose di poco conto se confrontate con la crocifissione, le belve feroci o
il rogo. Una tale serietà morale risulta attraente e ha generato un gran numero di proseliti, tra cui Giustino stesso. Per usare
una famosa espressione di Tertulliano, altro grande apologeta cristiano dei primi tempi: “”Il sangue dei martiri è il seme della
Chiesa.”
Noi cattolici occidentali moderni diamo un ben misero spettacolo al confronto. Mentre per la fede i nostri predecessori erano
pronti a morire, intere schiere di contemporanei non sono disposti neppure a vivere secondo la fede. Snobbano gli
insegnamenti solenni di Cristo e della Chiesa, come se non fossero essenziali per salvarsi. Persino tanti cattolici ortodossi
minimizzano il significato di dottrine sempre più impopolari ed evitano addirittura di parlarne, pur non giungendo al punto di
sconfessarle apertamente. Mentre i pastori delle comunità cristiane dell’epoca di Giustino andavano incontro alla pena
capitale con compostezza, molti esponenti della Chiesa di oggi vivono nel terrore di essere criticati dai media o di venire
esclusi dai circoli intellettuali.
Al cospetto dell’imperatore in carica al tempo della Prima apologia Giustino proclamò, con una nobiltà d’animo che appare
oggi del tutto fuori della nostra portata: “Puoi ucciderci, ma non puoi farci alcun male.” Sapeva che ciò che conta è il nostro
destino eterno e che assolutamente nulla di quanto patiamo in questa vita - né il diprezzo del mondo, né la persecuzione, né
la malattia o la povertà e neppure la morte stessa - rivestono un briciolo di importanza fintantoché rimaniamo fedeli a Cristo.
Quinta lezione: andate e fate come me
Mentre Giustino e la sua generazione si mantenevano rigorosi sul terreno intellettuale, noi siamo incerti e sentimentali.
Mentre loro insistevano sulla conversione e l’ortodossia, noi tolleriamo gravi errori e immoralità, per timore di urtare la
sensibilità altrui. Mentre loro ammonivano severi a proposito della dannazione eterna, noi fingiamo che tutto vada bene e così
facendo mettiamo in pericolo le anime. Mentre loro non temevano nemmeno la morte, noi siamo terrorizzati dalla cattiva
stampa. Mentre loro si conquistavano il rispetto dei persecutori, noi ci siamo guadagnati il disprezzo della cultura
secolarizzata che aduliamo e con cui scendiamo costantemente a patti. Loro convertivano il mondo, il mondo converte noi. Le
cose, difficili per loro in questa vita, erano facili in quella ventura. Noi vogliamo tutto facile in questa vita e troveremo tutto
difficile in quella che ci aspetta,
Loro, insomma, agivano bene, noi agiamo male. Dobbiamo rivolgerci indietro al loro esempio. Questo richiede, sulla scorta di
Giustino, una maggior quantità di vigore intellettuale, rigore morale, coerenza dottrinale e santa intransigenza. Meno scuse e
più apologia. Meno comodità e più sofferenza. Dobbiamo, in parole povere, essere meno effeminati e più decisi, come i nostri
padri.