di Guido Vignelli e Massimo Viglione
Quando viene mutato il linguaggio, anche se si pretende di ripristinare il significato autentico e
originario, spesso con la forma verbale rischia di mutare anche il suo significato. Ciò sembra
confermato dai mutamenti linguistici recentemente imposti dalla C.E.I., come quello di una frase
del Padre nostro. La nota richiesta rivolta a Dio di “non indurci in tentazione” è stata cambiata in
“non abbandonarci nella tentazione”: un cambiamento non solo di traduzione ma anche
d’interpretazione.
A chi afferma che questo cambiamento non è sostanziale, si può rispondere che, se così fosse, non
si spiegherebbe l’insistenza messa da anni a realizzarlo. A chi afferma che si tratta di un
cambiamento sostanziale ma opportuno, si può rispondere che, se così fosse, esso dovrebbe
rafforzarci nella Fede e non invece indebolirci, come invece risulterà chiaro da quanto segue.
Il cambiamento di traduzione della frase evangelica viene giustificato col pretesto di evitare il
rischio di presupporre un Dio che condanna alla dannazione solo perché siamo tentati a peccare; per
questo l’Apostolo san Giacomo ammonisce: «Che nessuno dica: E’ Dio che mi tenta» (Gc 1, 13).
Ma questo pretesto non regge. Infatti, è sempre stato noto che la frase incriminata significa
semplicemente “non permettere che siamo vinti da una tentazione superiore alle nostre forze”. Già
san Paolo Apostolo così confortò i primi fedeli: «Non vi sopraggiungerà nessuna tentazione
superiore alle vostre capacità; (…) assieme alla tentazione, Dio vi darà i mezzi che vi permetteranno
di resisterle» (1 Cor 10, 13). Dio non abbandona nessuno alla tentazione negandogli il suo aiuto;
Egli non ci mette alla prova per il gusto sadico di vederci cadere, tantomeno Egli predestina
qualcuno alla dannazione; altrimenti, professeremmo un predestinazionismo eretico di tipo
calvinista.
Eppure, le Sacre Scritture c’impongono di ammettere che Dio possa “indurre in tentazione” l’uomo,
o almeno permettere che questi sia “indotto in tentazione” dalla carne, dal mondo e da Satana.
Sappiamo infatti che Dio “tentò” Abramo nella sua fedeltà alla promessa ricevuta; tentò Giacobbe
nella sua ricerca di una moglie; tentò Giobbe nella sua fiducia nella Provvidenza (Gb 1, 12); tentò
perfino Gesù Cristo nella quarantena nel deserto («E il Signore mandò Satana contro di Lui»).
Nel progetto divino per santificare l’umanità, “indurre in tentazione” significa semplicemente
“mettere alla prova” a suo beneficio. Nella situazione posteriore al Peccato Originale, le tentazioni
danno all’uomo preziose occasioni: se è già saldo, sono occasioni di dimostrare la propria fedeltà;
se non lo è ancora, sono occasioni di rendersi conto della propria debolezza e di umiliarsi chiedendo
soccorso a Dio; in ogni caso, le tentazioni sono l’ordinaria occasione che servono all’uomo per
fortificarsi e santificarsi fino a meritare la salvezza. Nel Deuteronomio leggiamo: «Dio ti ha
condotto nel deserto, dove abitano il terribile serpente e lo scorpione e il rettile, affinché fossero
palesati i segreti del tuo cuore» (Dt 8, 3). Il Salmista così rammenta: «Tu ci hai messo alla prova, o
Dio, ci hai condotti nelle insidie; (…) ma alla fine ci hai salvato da esse per darci la felicità» (Ps 65,
10-12).
Dunque, se Dio “induce in tentazione” l’uomo, lo fa non per dannarlo ma per fargli meritare la
salvezza: «Dio vi tenta affinché gli dimostriate di amarlo» (Deut 13, 4). San Paolo ammonì: «Prima
di poter entrare nel Regno di Dio, bisogna passare attraverso un buon numero di tribolazioni» (At
14, 22), ossia di tentazioni, e l’Apostolo parlava per esperienza vissuta.
Da una parte, il nostro Redentore c’invita a chiedere umilmente a Dio di non metterci troppo alla
prova, perché noi non sappiamo fino a qual punto sapremo approfittarne, resisterle e uscirne
vittoriosi.
Dall’altra parte, però, chiedere a Dio di non essere mai essere messo alla prova è pericoloso. Infatti,
se un uomo, alla fine della vita, non ha mai subito nessuna tentazione, ciò non dimostra ch’egli sia
santo, ma anzi fa sospettare che Dio lo abbia abbandonato al suo destino, in quanto non lo ritiene
degno di essere nemmeno messo alla prova per meritarsi il Cielo. Si ricordi il famoso episodio di
quegli Apostoli che, ospitati da un padrone di casa che si vantava di non aver mai avuto nessun
problema in vita sua, vollero subito allontanarsi da quella casa, intuendo ch’essa era destinata alla
rovina, il che infatti poco dopo avvenne.
Ciò ci fa capire che Dio, quando “induce in tentazione”, sebbene sia sempre pronto a soccorrere
l’uomo tentato nel pericolo, tuttavia non sempre perdona e salva chi è caduto nella tentazione. Se
costui rifiuta l’aiuto divino, si ostina a peccare e addirittura si ritiene scusato, allora Dio può
decidere di “abbandonarlo a Satana”, ossia di non soccorrerlo più e anzi di “tendergli trappole” (Ps
65, 11) per affrettarne la rovina ed estinguerne lo scandalo, come ha fatto con certi individui e
popoli reprobi: «Dio li ha abbandonati ai loro perversi pensieri» (Rom 1, 28).
Conferma sant’Agostino: «Per un suo giudizio tanto profondo quanto misterioso, può capitare che
Dio abbandoni certe anime; allora, quando questo abbandono è compiuto, il Tentatore ne approfitta
per completare la sua opera: non trovando più ostacoli davanti a sé, s’impadronisce rapidamente di
coloro che sono stati abbandonati da Dio» (S. Agostino d’Ippona, Sermone LVI, 4 ss.). Fu questo il
caso di reprobi come Caino e Giuda Iscariota.
Stando così le cose, appare evidente la vera motivazione sottintesa al cambiamento di traduzione
imposta dalla C.E.I alla richiesta evangelica. Si vuole negare che Dio metta alla prova l’uomo per
fargli “combattere la buona battaglia” in modo da vincerla e così ricevere una salvezza che viene
donata solo a chi l’ha meritata. Invece, oggi il progressismo “buonista” ed ecumenista crede che
Gesù Cristo si sia “unito in certo qual modo ad ogni uomo” e operi mediante qualunque confessione
religiosa; pertanto, si pretende che Dio non abbandoni mai nessuno, che perdoni tutti sempre e
comunque, anzi che non metta alla prova nessuno, perché non c’è bisogno di meritare la salvezza
con le buone opere, essendo essa assicurata “gratuitamente” a tutti e senza discriminazioni. Ma
allora, il Cristianesimo non è più il sale bensì lo zucchero della Terra.
(Guido Vignelli)
Quanto detto è purtroppo ancor più confermato con la seconda equivoca e non necessaria modifica,
questa volta condotta direttamente sul testo della Messa: "e pace in terra agli uomini di buona
volontà", sostituito con "a coloro che Dio ama".
Nella prima formula, quella del Vangelo (Lc., 2.14), quella di sempre, si richiede la nostra buona
volontà (ovvero, uno sforzo verso il Bene e un rifiuto del male, del peccato: si richiede insomma la
scelta tra il Bene e il Male),e soprattutto si lascia intendere che vi sono uomini "non di buona
volontà", i quali quindi non meritano la pace di Dio. Quindi si presuppone un Dio che castiga.
Questo è inaccettabile per il clero modernista, in quanto appunto suppone un "giudizio di Dio" e
una divisione tra i salvi e i non salvi. E siamo nuovamente al punto di partenza.
Il problema è che in questo modo diviene inutile la Redenzione di Cristo, e quindi la sua Passione e
Morte. In qualche modo, la sua stessa venuta al mondo.
In queste riforme, appare evidente che il vero sgradito bersaglio è Gesù Cristo Dio e la Sua
redenzione. Per questo diviene oggi necessario, per ogni sincero cattolico, difendere la tradizione,
anche scritturale, di sempre. Non è questione di polemica o di formalismo: è assolutamente
essenziale per la salvezza della vera Fede e per la salvezza delle anime, che è la legge suprema della
Chiesa.
Del resto, “neppure uno iota e un apice della Legge andrà perduto” (Mt., 5,18).
Chi oggi difende anche gli iota e gli apici, serve e asseconda la volontà divina.
(Massimo Viglione)