Fonte: Il Corriere delle regioni
di Francesco Lamendola
Che noi siamo la prima generazione condannata a vivere nell’era post-umana, può darsi che in parecchi non se ne siano neppure accorti, ma è così; e i libri di storia, fra cinquanta o cento anni, non avranno dubbi in proposito (probabilmente mettendo un segno positivo accanto alla definizione). Non sarebbe la prima volta che ciò accade: ossia che la maggioranza delle persone non afferri il senso delle trasformazioni sociali in atto. Questa volta, però, siamo di fronte a un
unicum (sì, lo sappiamo; lo hanno già creduto in tanti, in troppi, e se ne potrebbe fare l’elenco: a forza di gridare:
Al lupo! Al lupo!, Pierino si è mangiato tutta la sua scorta di credibilità, e ormai nessuno farebbe una piega neanche se il gregge venisse assalito non da un lupo, ma da un orso, o magari da un leone affamato).
Sì, sappiamo che nei laboratori di bio-ingegneria si stanno facendo delle ricerche e degli esperimenti vagamente satanici; sappiamo che, oltre alla clonazione alla manipolazione genetica, si stanno creando delle chimere, dei mostri veri e propri, realizzati mescolando il DNA di specie diverse (altro che l’isola del dottor Moreau di H. G. Wells: la realtà finisce
sempre per superare la fantasia!), tuttavia pensiamo che la cosa, in fondo, non ci riguardi troppo da vicino; che riguardi solo una piccola
élite di discutibili scienziati e di spregiudicate autorità pubbliche e private, finanziatrici di quei progetti; dopo di che, giriamo la pagina del giornale e passiamo alla partita di calcio o alle previsioni meteorologiche per la nostra gita domenicale.
Eppure, il problema della post-umanità non si colloca solo negli ambienti, invisibili e super sorvegliati, dei laboratori di qualche istituzione militare o di qualche multinazionale particolarmente priva di scrupoli; non si colloca solo nella cornice di una casistica spaventosa, sì, ma tutto sommato ristretta, almeno per il momento, se non altro per i costi enormi che richiedono simili ricerche e sperimentazioni: il problema è ormai diffuso a tutti i livelli della società, nelle manifestazioni delle persone comuni e della vita quotidiana: perciò, esso riguarda anche noi, tanto che non esiste più un osservatore neutro e spassionato, che possa osservare il fenomeno dall’esterno, perché
siamo tutti immersi nel clima di sperimentazione antropologica, della quale noi siamo le cavie, in gran parte inconsapevoli. Diceva Pirandello che noi uomini siamo tutti dei burattini inconsapevoli di una gigantesca commedia, che si chiama vita; ebbene, a maggior ragione si potrebbe dire che noi siamo le cavie della odierna sperimentazione sull’uomo, tanto inconsapevoli quanto lo sono le scimmiette, i cani o i ratti utilizzati per gli esperimenti scientifici di laboratorio.
Non è solo una sperimentazioni biologica e genetica, o chirurgica e ormonale (si pensi, per fare solo un esempio, alla relativa facilità e disinvoltura con cui si procede al cambio di sesso di un essere umano, tanto che la società ha accettato senza batter ciglio la “nascita” di un nuovo orientamento sessuale, chiamato
transgender, e l’ha salutata come una conquista di civiltà, in quanto amplierebbe la sfera di auto-determinazione degli individui); è anche, e soprattutto,
una sperimentazione psicologica, intellettuale, culturale e morale, mirante a testare fino a che punto si può rimbecillire l’essere umano, fino a che punto lo si può plagiare, fino a che punto se ne può stravolgere il senso estetico o quello etico: e ciò non a livello di qualche caso isolato, ma a livello di massa. Si tratta, pertanto, di vedere fino a che punto, in quanto tempo, e con quali strumenti e metodologie –
vedi la classica “finestra di Overton” – si può condurre non solo qualche persona, ma l’intera società, o la stragrande maggioranza di essa, a mutare radicalmente la propria opinione ed il proprio atteggiamento pratico riguardo a ciò che si ritiene essere vero, giusto, buono, sano, bello, eccetera, e ciò proprio in cose che riguardano direttamente la nostra esistenza e le scelte di vita delle persone comuni.
Dire che moltissime persone fanno disinvoltamente, oggi, cose delle quali, fino a pochissimi anni fa,
si sarebbero vergognate, e non per antiquati pregiudizi o stereotipi irrazionali, ma sulla base di valori consolidati e tramandati da parecchie generazioni, è ormai dire una cosa perfino ovvia. Il fatto che questo cambiamento, o, per dir meglio, questo capovolgimento di prospettiva, sia stato preparato, accompagnato e minuziosamente rafforzato, non solo dalla pubblicità e dai mass media, ma da tutto l’insieme della cultura dominante, intellettuali
in primis, ovviamente non ha fatto altro che smorzare o
annullare la percezione che un ribaltamento c’è stato: il che è la condizione necessaria affinché non si torni più indietro: infatti nessuno si lamenterà mai di quel che gli sta accadendo, se non si rende conto che sta accadendo.
Del resto, basta guardare i bambini, e, in misura meno clamorosa, ma pur sempre evidente, gli adolescenti. I genitori e quanti lavorano nella scuola non possono non aver notato – ma
vedere e
capire sono due cose diverse –
quanto i bambini e gli adolescenti, a forza di dipendere dalla realtà virtuale della rete, siano “disconnessi” dalle situazioni della vita reale, e, quindi, sempre più in debito di capacità di osservazione, di fantasia, di memoria, di ragionamento critico, di realismo e concretezza nel loro agire; e, di conseguenza,
di quanto essi siano sempre più manipolabili e disponibili a fare da cavia per qualsiasi tipo di esperimento, tranne quello più semplice: riappropriarsi della loro identità e costruire un percorso verso l’autonomia personale e la vera stima di sé, cosa, questa, che richiede, sempre, un confronto con la realtà reale e non con la realtà virtuale.
Il fenomeno dei nerds, ragazzi abilissimi nell’uso della tecnologia elettronica, e dotati di un alto quoziente d’intelligenza astratta, ma penosamente goffi e inadeguati nella vita concreta, e, in compenso, pieni di risentimento verso il mondo dei “normali”, tranquillamente inseriti nella vita di ogni giorno, è un esempio assai eloquente. Ma se ne potrebbero fare molti altri, come
il ricorso precoce alle terapie psicologiche, psichiatriche e psicanalitiche da parte di soggetti di dieci o dodici anni, talvolta anche meno, per l’insorgere di problemi di dislessia, di autismo, di disagio e insofferenza sociale, di iperattività, di stress e surmenage, di aggressività e depressione, di disadattamento e di esaurimento nervoso vero e proprio.
Di che altro ci sarebbe ancora bisogno, perché ci rendiamo conto che è in atto una radicale mutazione antropologica, e che i nostri bambini, i quali non hanno mai visto un mucca o un vitellino, ma, in compenso, sanno “navigare” in rete con la consumata abilità di un professionista, e “chattano” sui social network con migliaia di loro coetanei (o forse con adulti e con “orchi” che si spacciano per coetanei) non saranno mai più capaci di vedere il mondo come lo abbiamo visto noi e come lo hanno visto, più o meno, tutte le generazioni che si sono finora succedute nel corso della storia, a partire da quando sorsero le prime civiltà, o, forse, prima ancora, a partire da quanto venne “inventata” l’agricoltura?
È evidente che qui si è iniziato un processo senza ritorno: perché i futuri figli di questi bambini, per non parlare dei loro nipoti, presenteranno le caratteristiche di “disconnessione” dalla vita reale, e di dipendenza dalla realtà virtuale della “rete”, in misura sempre crescente, secondo un ritmo esponenziale. E nessuno, a quel punto, potrà farci assolutamente nulla, se non altro per la semplicissima ragione che non ci sarà nessuno che giudicherà questi comportamenti e queste attitudini come delle patologie, e che si sognerà di cercare la maniera di attenuarli o di rimuoverli.
La nostra civiltà somiglia a una nave che sta filando dritta, dritta, verso il naufragio, ma la banda, nel salone di prima classe, continua a suonare musiche spensierate, e la gente balla e brinda allegramente alla joie de vivre.
A questo punto, è evidente che
dovremmo almeno chiederci cosa si possa fare per sopravvivere in un mondo cosìdisumanizzato, e destinato ad esserlo sempre di più, in tempi sempre più brevi e in modi sempre più scioccanti. A meno di fare testamento e spararsi un colpo di pistola alla tempia, noi abbiamo il preciso dovere – noi che, bene o male, ci stiamo accorgendo che il governo della nave è venuto a mancare, e che la prua punta inesorabilmente verso l’
iceberg; noi che, già adesso, ci troviamo continuamente, quotidianamente, in difficoltà a far quadrare le nostre idee, i nostri valori, i nostri stili di vita, con l’impetuosa corrente che sta sommergendo ogni cosa, e che mette in crisi la nostre esistenze – noi abbiamo il preciso dovere, dicevamo, di elaborare qualche strategia di sopravvivenza, per noi stessi e per i nostri cari, e, se possibile, nella misura in cui ciò sia ancora possibile, per i nostri figli, sperando in un miracolo che venga a sottrarli al destino post-umano, vale a dire
disumano, che incombe minacciosamente su di loro. Saremmo, infatti, dei ben miseri individui, se, dopo aver colto le proporzioni del disastro nel quale siamo immersi, non sapessimo fare altro che levare sterili lamenti o fare sfoggio di una inutile e algida capacità di osservazione, senza tradurla poi in atti e risoluzioni concreti, che possano aiutarci a fronteggiare, in qualche modo, la difficilissima, drammatica situazione in cui ci troviamo, e magari anche dischiudere un orizzonte di speranza ai nostri simili.
Per prima cosa, dobbiamo distinguere la sfera di ciò che possiamo fare, che è la sfera umana, dalla sfera di ciò che può fare Dio, la sfera del soprannaturale, ossia della vita divina. Colui che crede in Dio ha sempre ben chiara questa distinzione e non perde il coraggio né quando si tratta della prima, né, tanto meno, allorché si tratta della seconda. Il credente ricorda sempre le parole di Gesù nella similitudine della vite e dei tralci (
Gv, 15, 1-8):
"
Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già mondi, per la parola che vi ho annunziato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli".
Dunque, se una via d’uscita dalla presente situazione ci appare umanamente impossibile, o quasi,
dobbiamo sempre ricordare che ciò che è impossibile all’uomo, è possibile a Dio, perché a Lui niente è impossibile. D’altra parte, Dio non è un distributore automatico della sua grazia: Egli ascolta
sempre le nostre preghiere, e
sempre viene in nostro aiuti nei passi perigliosi della nostra vita: ma i suoi tempi e i suoi modi rimangono oscuri e si sottraggono al nostro sguardo, perché le sue vie non sono le nostre vie, e noi, d’altra parte, raramente siamo buoni giudici di ciò che è bene per noi e di ciò che è bene in assoluto (le due cose, peraltro, non sono mai in contrasto, se noi le consideriamo
con la mente sana, come direbbe Dante). Dunque,
la certezza del suo aiuto non ci esenta e non ci solleva in alcun modo dalla necessità di rimboccarci le maniche e di impegnarci per realizzare tutto ciò che è umanamente possibile:
ad impossibilia, infatti,
nemo tenetur. L’importante è ricordare che, quando facciamo qualsiasi cosa, la facciamo nel suo spirito e secondo il suo volere, e con la ferma convinzione che non noi stiamo operando, ma Lui, attraverso di noi: altrimenti potremmo montarci la testa e immaginare di poter fare, da soli, chissà che cosa. Mentre Gesù ha detto, con estrema chiarezza:
senza di me non potete far nulla; e non già
senza di me potete fare solo qualcosa, perché qualcosa è qualcosa, e nulla è solamente nulla.
A questo punto, appare evidente che noi abbiamo due sole possibilità che si aprono davanti ai nostri passi: o scegliere di offrirci quali docili e volonterosi strumenti nelle mani di Dio, e combattere, con il suo aiuto, il suo consiglio e il suo sostegno, la buona battaglia per la realizzazione del suo Regno; oppure respingere la sua chiamata, scegliere per noi stessi e contro di Lui, e percorrere la via dell’orgoglio, della superbia e dell’avidità (di gloria, di potere, di ricchezza, di piacere), vale a dire la via dell’inferno.
Non esiste una terza possibilità, perché la vita è una battaglia, e la neutralità non è possibile: o si sta da una parte, con Dio, o si sta dall’altra, contro di Lui.
Proprio questo ci aiuta a vedere e a comprendere chiaramente la natura diabolica della civiltà moderna: essa non sta con Dio, perché insegue il miraggio di una potenza illimitata dell’uomo e di un dominio totale di lui sopra le cose; dunque sta contro Dio e con il diavolo, il suo nemico. Ma cosa deve fare, concretamente, colui che si trova a vivere in un mondo sempre più disumanizzato, e se ne rende conto, oltre a pregare sempre, senza stancarsi mai? Per prima cosa, acquistare consapevolezza, in maniera sempre più nitida, della reale natura e portata del fenomeno. In secondo luogo, cercare di diffondere tale consapevolezza, mettendo in conto che incontrerà incomprensione, fastidio, disprezzo e derisione, se non vera ostilità. In terzo luogo,
credere sempre nell’amore, come l’ha insegnato Cristo e non come lo intende il mondo: perché esso è più forte di tutto ciò che il maligno possa mai escogitare…